Dal ciclo "L'UOMO"
IL MALE OSCURO DELLA PITTURA
Studio Abate
Roma, via dei Sabelli 16
a cura di | curated by Duccio Trombadori
23 maggio - 16 giugno 2014
Presentazione | Introduction: Claudio Abate
Testi critici di | Pieces by: Duccio Trombadori, giornalista e storico dell'arte | Journalist and art historian
Alessia Carlino, critico d'arte | art critic
Fotografie | Photographies: Claudio Abate
Traduzioni | Translations: Dario Fabbri (Inglese, English)
Claudia Wiegleb (Tedesco|Deutsch)
Ufficio stampa | Press: Flavio Alivernini
Progetto grafico |Graphic design: Aurelio Candido
Stampa | Printing: Arti Grafiche Agostini
http://www.arte.it/calendario-arte/roma/mostra-valerio-de-filippis-il-male-oscuro-della-pittura-8499
IL MALE OSCURO DELLA PITTURA
di Duccio Trombadori
Roma, maggio 2014
Valerio de Filippis vuole dipingere il male di vivere con intensità gestuale e sprezzo dichiarato delle buone maniere.
Non c'è nulla di artificiale o di artefatto nella sua immagine compiuta. Egli descrive il furore della vita sotto varie forme del simbolo o dell'allegoria. E sembra quasi cercare l'effetto sgradevole dei contrasti di forma, luce ed ombra, quando la materia cromatica gli prende la mano e impone il suo magma.
Come presa da 'male oscuro' la pittura crea e mangia la forma, si afferma come potenza autonoma attraverso lampi di luce sulfurea ed emerge come sostanza incandescente dal vulcano della energia espressiva.
Il Terzo Assalto / The Third Assault (2012) tecnica mista su legno - mixed media on wood, cm (90x120)
Siamo in presenza di un immaginario scelto in simultanea con l'azione pittorica. Ogni resa visiva ci appare lacera e quasi indistinta, come uno sporadico 'flash' scattato su un paesaggio dai contorti inusitati che sembra alludere all condizione 'infernale' in cui versa l'elemento umano.
Uomini, anni e vita scorrono davanti ai nostri occhi e sembrano sorpresi in atteggiamenti che ne contraggono le membra, le divaricano e le torcono come specchio di una sofferenza interiore. Le figure sono fissate al lampo di magnesio da un osservatore fulmineo, che si accosta come affascinato dall'accoppiamento improvviso di due corpi, dalle anomalie motorie, dagli sguardi catatonici, dai volti lacerati dall'età e dalle figure femminili in fiorente primavera che sembrano stampate sulla patina di una rivista di moda.
Figura / Figure (2007) tecnica mista su legno - mixed media on wood, cm (110 x 125)
Siamo nel cuore di una narrazione che suggerisce visioni intertestuali, un flusso continuo di esperienza vissuta trasfigurata per analogia dell’umano al post-umano, dove appaiono spezzoni di architetture metropolitane, luci fosforescenti messe a fuoco dall’obbiettivo: una mano emerge dal fondo bituminoso, in equilibrio di luci nella notte, come fotografata da un’automobile in corsa; il primo piano di un uomo in rosso viene incontro in prospettiva aggettata sullo sfondo di vernici rugginose, di plastiche bruciate: e un nudo ripreso di tre quarti, con l’aria di ‘prigione’ senza tempo, mostra la spalla allo spettatore, col viso semi-illuminato, le luci violente, le colature di vernice e il fermentare di materia monocroma che appiattisce lo sfondo.
Che tipo di mondo descrive Valerio de Filippis e di quale ‘universo orrendo’ (direbbe Pasolini) vuol essere lucido testimone? Tra plastiche argentate, tessiture di gommalacca, carte, colle, resine e vernici diverse, egli ci parla di ‘demoni’, di ‘mutanti’ e di strane figure d’oltretomba, lèmuri a figura d’uomo che all’uomo s’appaiano come ombre profetiche ed esiziali.
Davanti alla legge / Before the law (2012) tecnica mista su legno - mixed media on wood, cm (90 x 120)
E' tutto un gran teatro di simulacri questo apparire di 'hollow men' di fronte a una natura decomposta che sembra un retromondo ed è parafrasi del mondo dove lo sguardo si posa come 'muto ospite' di fronte ad un bruciante richiamo di realtà sottolineato da allucinazioni della fantasia. Il pittore segnala le sue immagini come 'astratti furori' o simboliche moralità in un paesaggio consumato al calor bianco degli idrocarburi, metafora di armonie biologiche spodestate dalla violenza tecnica, dai fragori e rumori della guerra in cui si risolve, come dice Macbeth, la favola insensata della vita. Così, in modo quasi spettrale, compaiono straniritratti, come segni linguistici arbitrari che indicano possibili vie di comunicazione in uno scenario da 'Blade Runner' di un mondo giunto al 'grado zero' della solitudine.
Figura serie W mod. 1 / Figure series W mod. 1 (2011) tecnica mista su legno - mixed media on wood, cm (90 x 120)
Armatura / Armor (2010) tecnica mista su legno - mixed media on wood, cm (90 x 134,5)
Carica di disperazione vitale, la pittura illumina le più eseplari banalità quando le associa al giuoco calcolato della fantasia: i corpi contratti, le protesi dell'accoppiamento erotico, i flussi naturali della vita e della morte si presentano come la parodia visiva di drammatiche verità esistenziali.
Grazie alle figure degli 'androidi' deformati dalla forma e dal colore (gialli sulfurei, neri bituminosi, rossi scarlatti) e le apparizioni di scenari apocalittici e mitologici (per esempio: una 'Nave di Ulisse' appare sul fondo oscuro
di una notte in tempesta, mentre la osserva in primo piano un vecchio dall'aria di vaticinante Tiresia) Valerio de Filippis tesse una trama apocalittica che esalta in modo coinvolgente il potenziale puro della materia cromatica.
Sul piano espressivo il pittore è sensibile al procedere tumultuoso della emotività ed interpreta in modo originale una certa tradizione nordeuropea (dai grumi colorati di Nolde fino alle varianti postmoderne di Lupertz e Polke) ma la sua vocazione formale è ben piantata su una forte radice plastica di impianto veristico o iper-reale che modella poderosamente l'immagine dei corpi umani e ne fa oggetto di fervida indagine morfologica. E in questa intersezione di formule si precisa compiutamente l'accentostilistico di una pittura che persegue consapevolmente l'amalgama del lato visionario dell'immagine con quello drammatico-esistenziale della figurazione.
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PAINTING'S DARK EVIL
by Duccio Trombadori
Rome, May 2014
With gestural intensity and stated disdain for good manners, Valerio de Filippis portrays gloominess.
There’s nothing artificial or doctored about his accomplished image. He depicts life’s furor through several forms of symbol and allegory, as if he were seeking the unpleasant effect caused by contrasts among form, light and shade, when chromatic matter imposes its will and force its magma upon him.
As haunted by “a dark evil”, painting creates and destroys form, then establishes itself as an autonomous force through flashes of sulphurous light and emerges as an incandescent substance out of the volcano of expressive energy. We witness an imaginary chosen simultaneously with the pictorial gesture. Each visual output looks frayed andalmost indistinct, like a random snapshot of a landscape which sports unusual outlines and seems hinting at the infernal condition of human race. Human beings, years and life pass before our eyes, apparently caught in poses which bend, spread and twist their limbs as mirror of an inner struggle. Silhouettes look like photographs taken with a magnesium light by a deft observer who comes closer, mesmerized by a sudden intercourse between two bodies, by motor abnormalities, by catatonic gazes, by faces spoiled by age, and by feminine figures in their prime who seem printed on the shiny paper of a fashion magazine. We are into the midst of a story which conjures up intertextual visions, an endless flow of lived experiences transformed by analogy from human to post-human, where suddenly appear parts of metropolitan architectures, florescent lights sharply focused on by a camera lens: a hand rises up from the bituminous bottom as photographed by a moving car, all around night lights in a balanced array; the close up of a protruding man approaching us while rusty paints and burned plastic stay in the background; and a nude in three-quarter view, reeking of a timeless “prison”, the back turned to the spectator with a semi-lit face, violent lights paint, paint leakages, and fermenting monochromatic matter which flattens the background.
What kind of world does Valerio de Filippis portray and what dreadful universe (as Pasolini would say) he wants to be an aware witness to? Among silver plastics, shellac weavings, paper, glues, resins, and varied paints, he tells us of demons, of mutants, of strange figures from the netherworld, human-resembling lemurs who look prophetic and calamitous as shadows. These hollow men make for a great theatre of simulacra right in front of a decomposed nature resembling the afterworld and it’s actually a paraphrase of the world, in which our gaze lingers as “silent guest” while a soul-searing call for reality gets amplified by fantasy hallucinations. The painter presents his images as “abstract furors” or symbolic moralities in a landscape scorched with the white heat of hydrocarbons, metaphor of biological harmonies defeated by technical violence, by buzzes and noises of war where, as stated by Macbeth, the fairytale of life draws to an end. Thus, in a quasi-ghostly way, strange portrays materialize like arbitrary linguistic signs pointing to possible means of communication in a scenario à la Blade Runner, when the world has reached the zero-degree of loneliness. Laden with vital desperation, painting sheds a light on the most quintessential trivialities when succeeds in connecting them to the thoughtful game of imagination: torn bodies, artificial limbs employed during intercourse, natural cycles of life and death present themselves as the visual parody of dramatic and existential truths.
Thanks to figures of androids warped by form and color (sulphurous yellow, bituminous blacks and scarlet reds) and epiphanies of apocalyptic and mytological scenarios (i.e. Ulysses’ ship appearing in the dark background of a stormy night, while an elder, resembling the Greek prophet Tiresias, looks on in the foreground) Valerio de Filippis weaves an apocalyptic plot which, in a captivating manner, exalts the pure potential of chromatic matter.
On the expressive level, de Filippis proves to be receptive to the tumultuous advancing of sensitivity while interpreting in a highly original way a certain North European tradition (from Nolde’s colored lumps to Lupertz and Polke’s postmodern variations). Nonetheless his formal vocation draws from a strong plastic background of veristic and hyperrealistic origin, vigorously molding the image of human bodies and making them the objects of a fervent morphologic investigation. And by mixing these very formulas de Filippis unquestionably refines the stylistic accent of his art, which consciously pursues the amalgam between the visionary side of image and the dramatic and existential side of representation.
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Lo specchio (Il boia) / The mirror (The executioner) (2012) tecnica mista su legno - mixed media on wood, cm (73 x 110)
UNA PRESENZA NASCOSTA
di Claudio Abate
Roma, maggio 2014
Non appena scoperta l’arte di Valerio de Filippis sono stato colto dalla curiosità di capire meglio quali idee e quali gesti avesse già prodotto la sua mano: una tela, che riempie di energia il mio laboratorio, mi ha sempre suggerito l’idea di conoscere più a fondo l’artista.
Una volta esplorata la sua pittura, ho sentito che avrei dovuto ospitare una mostra per capire davvero il suo mondo perché non mi sarebbero bastate le immagini, una visione non materica.
Ci sono artisti che parlano di sé, ce ne sono altri che raccontano più quello che accade fuori; de Filippis, a mio parere, percorre entrambe le dimensioni. Al limite di questi due spazi si pongono le mani dei suoi soggetti: un capolavoro di espressività attraverso il quale de Filippis squarcia il velo del disincanto per portare sulla scena la grazia e l’ossessione che comunicano i corpi.
Nel corso della mia carriera mi sono sempre fatto guidare dall’intuito e, devo dire, la maggior parte delle volte gli artisti che ho fotografato hanno rivelato il loro talento al pubblico e alla critica.
Anche stavolta seguo l’istinto e mi affido al linguaggio nuovo e senza tempo della pittura di Valerio de Filippis per comunicare un’idea di quanto sta accadendo nel panorama artistico contemporaneo.
Quella che vedrete allo Studio Abate non è una mostra che veicola messaggi di facile comprensione o dove sia sufficiente uno sguardo distratto o svagato; è un’esposizione di immagini pittoriche che contengono emozioni stratificate e sempre vive nei sentimenti che esprimono e nell’immaginario nel quale si vengono a depositare.
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A HIDDEN PRESENCE
Rome, May 2014
As soon as I discovered Valerio de Filippis’ art I felt the urgency to better understand what ideas and what gestures his hand had already produced: a canvas, filling my studio with energy, always advised me to get to know the artist further.
Once I had studied his art, I felt I ought to host one of his exhibitions to really grasp his world as examining images – a non-material view – didn’t seem enough.
There are artists who tell us about themselves, others who mostly describe what happens outside; de Filippis, in my opinion, pursues both dimensions. At the edge of these two spaces lie hands of his subjects: a masterpiece of expressivity by which de Filippis rips the veil of disillusion to bring on stage grace and obsession conveyed by the bodies he portrays. Throughout my career I always let intuition guide me and I must say most of the times the artists I photographed have revealed their talent to both spectators and critics. This time as well I will follow my instinct and rely on Valerio de Filippis’ innovative and timeless language to deliver an idea of what it’s happening in the contemporary art scene. The exhibition you will attend at the Abate Studio is not one conveying messages easily understandable by a distracted and superficial spectator. It’s an exhibition containing stratified feelings which perpetuate themselves in the emotions they express and in the imaginary where they tend to settle.
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De Filippis.
Preistorico splendore
di Livia Bidoli
http://www.gothicnetwork.org/articoli/de-filippis-preistorico-splendore
Primitivamente istoriati, i corpi dei guerrieri di Valerio de Filippis si muovono attraverso flessuosità
plastiche in universi di disincanto esponenziale. Paradisi d’inferno fantascientifico delineano narra- zioni sincopate in sincronia con il tenero livore di alcuni tratti, dipinti dalle lucide
spanne di touches de couleurs vibranti sul rosso e sull’argento. Ancora, sulle braccia, quasi trattenute nell’impervio sostare della tensione muscolare, si innestano vene appena
sollecitate, invariabilmente mobili nel loro peregrinare tra fatiche umane e d’interiore ed eroica purezza.
I guerrieri tacciono, immersi nella plasticità desueta di un turbinoso vigore, accogliendo forzatamente tattili metafore di un luogo dell’altrove. Sembra quasi di
udire il tragico canto del pittore attraverso di loro, come asseriva Kafka a proposito delle sue silenti sirene, scrivendo a Milena: ”Cerco sempre e ancora di comunicare qualcosa di non
comunicabile, di spiegare qualcosa d’inspiegabile, di raccontare qualcosa
che ho nelle ossa e di cui soltanto in queste ossa si può fare esperienza” (1).
L’altrove rimosso determina la pittura rutilante di de Filippis conducendo in uno spazio simile ad un’intercapedine dalla quale finalmente si possano percepire i sussurri del risveglio da un canto reso muto in un passato remotissimo. Il superamento agognato, stremato sulla soglia di una tenebra accentuatamente divelta dagli sprazzi di colore che come tagli infliggono ferite sul legno, è sempre una lotta che nelle parole di Bataille trova la sua dimensione descrittiva: “L’essere raggiunge il fulgore accecante nell’annientamento tragico”(2).
L’apoteosi di questo movimento acceca per il furore espressionista proprio nelle gambe sezionate di Il giocattolaio, emblema stesso della frantumazione dell’io in un mito, il cui passo scorre aldilà del tempo in cui gli è stato concesso di nascere. Un Dio disperso tra la polvere, i cui granelli microscopici derivano da parti fratturate nel momento stesso dell’impetuoso slancio. Un gesto disperatamente nichilista come afferma di nuovo Bataille: ”Il nulla stesso è il suo giocattolo: non vi si inabissa che per lacerarlo e illuminarne la notte al quale non sarebbe mai pervenuto se questo nulla non si aprisse totalmente sotto i suoi piedi”(3).
La fiamma della candela sul capo, in Accidia, non è che il simbolo di un fuoco desto, nonostante questo annientamento, in tutti gli sprazzi incrinati della pittura, in tutti gli acerbi spruzzi di matrice rubino, una circolazione vitale che ha il sangue come suo memento fulminante e fondante.
Il teschio rosso di The Circle non fa
che reiterare una ricerca di ubiquità nell’animo, quasi a lacerare quelle barriere che non permettono di trasferirsi in luoghi appena immaginati.
La forza sovrumana dell’evocazione non fa che richiamare l’attenzione su un atto doppiamente leggibile, sia nel senso di annichilimento sia come correlativo oggettivo di un magma folgorante sul punto di esplodere.
Ed allora ci si accorge che il viaggio di Ulisse è ancora di là da venire, il Ciclope come le sirene lo attraggono in absentia, come se il vero viaggiatore non fosse lì, direttamente nel quadro, ma da qualche parte, ai lati, ad osservare qualcosa che accade unicamente perché il pittore vi si è tramutato, essenza
stessa e raffigurazione, forse qui, forse altrove. Azionando ex novo i meccanismi che irrompono sul
legno dipinto, incidendo pensieri in volo rapido, in traiettorie obnubilanti che, spargendo autentiche
grida d’amianto, irrigano con gli elementi puri le cromie variabili di un viaggio.
Nelle viscere di un mondo capovolto, ove le stesse emozioni si fanno corpi assoluti, un brillare verde-dorato di un mago o forse di un iniziato, raggomitolato con il braccio e la mano tesa (come tutti i corpi dipinti nei quadri) a mostrare un ciondolo con un cerchio ed un drago, un anello dei Nibelunghi in tutta certezza conquistato. A questo punto i guerrieri lamentano con le stesse parole di Frika dal II° atto di La Valchiria di Richard Wagner: “Con misterioso senso/ mi vuoi illudere:/ che di eroico dovrebbero/ gli eroi mai operare,/ che fosse proibito ai loro dèi,/ il cui favore soltanto opera in loro?”(4)
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[1] Franz Kafka, Lettere a Milena, traduzione di Ervino Pocar, Oscar Mondadori 1979.
[2] Georges Bataille, Il labirinto, traduzione di
NOTE
Sergio Finzi, SE, Milano, 2003, p. 24.
[3] Ibid, p. 25.
[4] Richard Wagner dal II atto di Die Walküre (stesura 1851-56, la prima teatrale il 26 giugno 1870) , traduzione di Guido Manacorda: “Mit tiefem Sinne/ willst du mich täuschen:/ was Hehres sollten/ Helden je wirken,/ das ihren Göttern wäre verwehrt,/ deren Gunst in ihnen nur wirkt?”.
Pubblicato in:
GN1/ 3-17 novembre 2008 Autore: Valerio De Filippis -Titolo completo: PRS TRC - PREISTORICO
Location: Domus Talenti, via delle Quattro Fontane, 113 - Roma
Periodo: 17 - 30 settembre - Anno: 2008
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Eros e primordio al tempo dei mutanti
di Felice Cervino
(tratto dalla rivista d'arte V.O.G.U.T. 5 n° 1; 2006)
E’ sempre l’umana carne, dannatamente battuta da tutti gli oltraggi, ad essere violata ed immolata: decade tra violenza e godimento ed è sempre l’antica brama del potere a determinare le distanze tra le invenzioni delle colpe, giustificative delle punizioni, e le esorbitanze delle pene: i dannati sono esclusi dalla pietà, se è divina sentenza quella che condanna al dolore infinito.
Ricordate il compiacimento di Virgilio quando Dante per essere in perfetta sintonia con il crudo/giusto volere divino maledice Filippo Argenti nel canto VIII dell’Inferno e disprezza il suo pianto? “Benedetta tua madre che ti ha partorito” sentenzia la saggia guida e, con il pellegrino che si fa vanto d’averlo avuto per maestro e autore, si compiace dello strazio che il misero dannato subisce ad opera degli altri infelici come lui. Costretto a sfogare l’ira rabbiosa su sé stesso: “...In se medesimo si volvea coi denti”.
Valerio de Filippis è attento all’infernale condizione dell’umana carne, dannata negli accessi delle rinunce e in quella dei sensi sfrenati, esorbitati
dai freni convenzionali e pertanto più sintonici all’esempio di natura che libera le sue energie.
Travolge così, con l’impeto del caos la lunga fatica delle terrene cose che mirano, nel tempo che le consuma, a farsi cosmo: i faticosi equilibri sono spazzati via.
Nulla quindi è più precario della condizione che ha senso nell’armonia. E’ superfluo soffermarsi sui naturali eventi che dominano la scena del mondo: le esorbitanze della viva carne che travolgono vittime e carnefici, riutilizzano il mito eterno del caos che deride gli equilibri e le armonie, gode del puro istinto, a immagine e somiglianza di natura, giustifica il transito vitale.
Con la sapienza delle sue tecniche, del cromatismo adeguato, delle forme all’evidenza censiva nell’azione coinvolgente, l’artista trasferisce nel suo immaginario, e lo fa con propositivo coraggio, abbattendo nei suoi percorsi l’acquiescenza delle convenzioni, fasi salienti della storia umana. Conferma dunque che l’ordine deriva dal caos, evidenziando proprio la supremazia della memoria del primordio che vince le strategie tecnologico-progressive nelle umane sorti. Insorgono nei tempi in successioni disastri evoluti in violenze: coinvolgono spazi sempre più vasti, vanificando argini e ripari.
Da quando gli uomini inventarono gli dei e alla loro onnivora violenza vennero via via sostituendo sempre più umane qualità, è stata sempre la loro carne ad essere immolata. L’età degli eroi non è mai stata immune da stragi e disastri: il mare della ferocia è stato sempre vasto di sangue umano in tempesta.
L’età degli uomini ha arricchito di vittime la terra desolata e quando l’uomo si è sostituito alla natura e si è trovato di fronte solo a se stesso, lo sforzo d’essere artefici d’umanità ha visto in caotica mescolanza, in disastri incoercibili, altre vittime e carnefici ai punti di non ritorno, alle svolte epocali in cui le vesti e le maschere non sono valse a garantire all’esorbitanza del potere economico il dominio che appaga i desideri più arditi.
Umana carne, dunque, per crocifissione, stupri, disastri, smembramenti, piaceri da guardoni che godono dell’altrui sadico godimento, della promiscuità che
si esaspera ai limiti dell’ambiguo proprio nel tempo dei mutanti, il cui corpo è dominato dalle protesi, dai meccanismi che rispondono alle esigenze della cibernetica, della clonazione, dei sistemi
d’allarme ricchi, più di Briareo, d’occhi artificiali.
E’ sempre la macchina umana, ma quanto, a diventare proiezione, oggettivazione, immagine e somiglianza del genericamente umano. Morto l’uomo sociale, la società, e divinizzata l’evoluzione dell’ingegneria cibernetica, vige l’isomorfismo tra meccanismi ben ingranati, e l’uomo, tra cervello umano e sistema elettronico, fantascienza e fantapolitica; il servo-meccanismo è condanna all’entropia: la sorte si rinnova in vesti evolute dalla natura all’uomo, alla macchina che elabora dati in riduzione del cosmo, con umani residui, in sistemi cibernetici.
Allora ecco i disastri, gli scontri frontali, gli eccidi, le deflagrazioni, le macchine perfette che trapassano i loro guardiani tra smembramenti che rivelano terrestri-extra-ragioni-della-terra, mani prensili colme d’orrore, mutilazioni che sommano meccanismi biologici all’indistinto umano che saluta i novelli androgini con mammelle al silicone e sessi intercambiabili, magari con rapidi scatti e innesti a baionetta, proprio come si fa per gli obiettivi delle macchine fotografiche, o meglio si faceva ieri, un millennio fa.Eppure nonostante tutto l’antica brama persiste tra bagliori di morte, vampe a gara d’eruzioni vulcaniche, esplosioni che fondono ghiacci e deridono il sole per titanici abbagli.
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“L’Aquila non si muove. L’immutabile identità di un popolo”
a cura di Cecilia Paolini.
Roma, Palazzo Ferdinando di Savoia
Ministero dell’Interno, Polizia di Stato, Regione Abruzzo, Provincia dell’Aquila
2010
L'uomo, in quanto essere razionale, è in grado di provare dolore e piacere al di là della contingenza fisica, in una dimensione che è soltanto e profondamente esistenziale. Ma il “male di vivere”[1] è pura conseguenza della razionalità che distingue l'uomo da qualsiasi altra creatura: in un'età dell'oro immemorabile, vagheggiata già nella mitologica Arcadia[2], la felicità era costituita dal connubio tra l'uomo e la Natura. Quello stato di grazia, ormai perduto, era dato da un'inconsapevole simpatia con l'eterno ciclo del mondo terreno. Con la razionalità, l'uomo ha perso la capacità dell'innocenza, per cui il dolore si è trasformato in angoscia esistenziale e il piacere è null'altro che mancanza di dolore, ossia un effimero inganno. Le “magnifiche sorti e progressive”[3] hanno condannato l'umanità a un'ansia perenne, allontanandola dalla sua vera natura. Da questo stato non v'è alcuna via di fuga; la consapevolezza, però, può suggerire all'uomo l'unico comportamento degno per la sua esistenza: non combattere contro il dolore esistenziale ma viverlo profondamente con il coraggio e l'eroica rassegnazione di un Titano.
In "PRS TRC", la condizione umana è rappresentata fin dal titolo, cifratura, privata delle vocali, della parola “preistorico”. Il soggetto, che fisicamente richiama agli eroi mitologici, è accucciato come a voler ritornare nella posizione fetale; dietro di lui un magma informe rappresenta tutto ciò a cui ha rinunciato: non a caso la definizione anatomica dell'uomo è massima verso gli arti inferiori, decisamente distaccati dal fondo, mentre si fa meno netta verso la testa, simbolicamente sede della razionalità. É dunque la rappresentazione di una nascita, molto più drammatica di quella biologica perché inizio della coscienza di sé: viene raffigurato il momento in cui l'uomo perde l'innocenza, si allontana dalla Natura ed è costretto a diventare l'eroe della propria sorte, ineluttabile e unica identità umana.
“The Circle” è il contrappunto logico. L'anatomia eroica di memoria policletea[4] è qui portata all'esasperazione, tanto che le membra sembrano disfarsi costrette a una tensione impossibile da sostenere. In questo caso il volto del soggetto non è rappresentato, non già perché si va definendo il processo di consapevolezza per la sorte umana; è piuttosto il momento finale di quel processo: nel momento in cui l'uomo riesce a intuire la conoscenza di se stesso, trasforma inesorabilmente la razionalità in pazzia. Il connubio con la Natura garantiva all'uomo primitivo l'inconsapevolezza per il più grande ignoto con cui l'umanità è costretta a confrontarsi: la morte. Aver abbandonato lo stato di natura, implica l'impossibilità di accettare con animo quieto la caducità della propria esistenza. Il terrificante memento mori simboleggiato dal teschio, è, nella costruzione dell'immagine, l'elemento focale verso cui l'occhio dell'osservatore è attratto. La vita umana è come il corpo rappresentato: non si può conoscere né la propria nascita, di cui non si hanno ricordi, né la propria fine. L'“oscillare impotente tra noia e dolore”[5] rappresenta tutto ciò che esiste tra l'inizio e la fine, ossia tutto ciò che di se s tesso può conoscere l'uomo. Il riscatto da questa condizione è l'atteggiamento titanico dell'eroe che accetta incondizionatamente la propria sorte costruendo un destino che vada al di là della propria esistenza fisica.
I due lavori di de Filippis hanno notevoli rimandi figurativi: la costruzione della luce di taglio che definisce la volumetria è senza dubbio derivata dallo studio degli scenari caravaggeschi. Il disfacimento del corpo umano, confuso in modo visibilmente compiaciuto in un miscuglio di colori scuri, che suggeriscono marcescenza, richiama alla memoria l'arte di Francis Bacon, anche se nelle opere di de Filippis la tematica dell'uomo-eroe impedisce una trattazione delle anatomie fortemente distorta come nel pittore irlandese. La scelta di lavorare per grandi dimensioni non è casuale: amplia il sentimento terrificante dello spettatore che, posto di fronte alla rappresentazione della propria identità umana, non può che prestare attenzione alla propria coscienza.
Cecilia Paolini
storico dell'arte
NOTE
[1] La citazione è tratta dalla poesia “Spesso il male di vivere ho incontrato” di Eugenio Montale (dalla raccolta “Ossi di Seppia” del 1925). L'espressione, divenuta proverbiale, fa riferimento al malessere esistenziale connaturato alla vita. Nella poesia, Montale cita la “divina Indifferenza” come unico rimedio; in tal senso è particolarmente significativo il riferimento alla nuvola e al falco dell'ultimo verso, elementi della Natura che si elevano al di sopra delle miserie terrene: contro il male esistenziale, l'unico atteggiamento possibile dell'uomo è assumere una stoica indifferenza.
[2] Non a caso l'Arcadia è il luogo abitato da Pan, dio immanente, spirito di tutte le creature, simbolo di una spiritualità che non si giustifica con la trascendenza, ma con un connubio intimo con il ciclo della Natura. L'uomo moderno ha imposto la sua superiorità nei confronti del resto del creato in nome della razionalità, ma è proprio in virtù di questo distacco che ha perso la felice innocenza del suo stato primitivo.
[3] La citazione è tratta dalla poesia “La Ginestra, o fiore del deserto” di Giacomo Leopardi. Il poeta fa riferimento al concetto di sviluppo della scienza e della tecnica che sembra non avere limiti e soprattutto inganna l'uomo facendo vagheggiare la felicità nel progresso. Si tratta, però, di una evidente utopia: la ginestra, simbolo dell'umana condizione, contro la lava del Vesuvio, che costituisce il suo destino tragico, può solo coraggiosamente risorgere. Nella debolezza umana è insita la propria identità: la dignità dell'uomo è nell'accettazione della propria condizione rinunciando a qualsiasi velleità di supremazia contro le forze della natura.
[4] Si confronti, a tal proposito, l'anatomia del soggetto di The Circle con il Diadumeno o il Discoforo di Policleto. Perfino la postura, leggermente tesa su un fianco, è un puntuale richiamo al ritmo scultoreo chiastico (ossia la costruzione anatomica basata sul preciso equilibrio tra flessioni e tensioni degli arti del corpo) teorizzato nel celebre “canone” dello scultore argolide.
[5] Si fa riferimento a una celebre frase di Arthur Schopenhauer per il quale la sofferenza umana è data dall'oggettivazione della volontà, per cui la liberazione dal dolore è data necessariamente dalla negazione del mondo fenomenico. É significativo considerare che il filosofo individua tre gradi per la liberazione dal male della volontà: il primo di questi gradi è costituito dall'Arte, ossia la contemplazione nel completo rapimento estatico. La contemplazione dell'arte, però, è un rimedio fugace, che deve essere seguito dalla Morale e dall'Ascesi (Arthur schopenhauer, “Die Welt als Wille und Vorstellung” (Il Mondo come Volontà e Rappresentazione), 1819.
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VALERIO DE FILIPPIS
“L’EVOCAZIONE DELLA FIGURA”
di Alessandro Ingafù Del Monaco
Se assumiamo il “Postmodernismo” come paradigma descrittivo della nostra epoca, dobbiamo osservare come il sistema capitalistico maturo ha stravolto quelle categorie, quei concetti come quello di Arte, che ciascuno probabilmente presume di poter definire. In una società globale, decentralizzata, è davvero difficile trovare definizioni. Trovarle può voler dire cadere in una presa di posizione ideologica che pretenda di dare una natura a ciò che non la ha più. Le idee, le immagini, si sono svuotate di significato per colpa di una assuefazione alla dimensione mediatica, sono simulacri, rappresentazioni autoreferenziali che hanno perso di autenticità ma soprattutto di oggettività. Dunque, nulla può esser più fuorviante della pretesa di comunicare verità o di avere definizioni oggettive da appiccicare come etichette alle cose. Questo è un grande problema per l’Arte Contemporanea. Già nel XX, ma certamente nel XXI Secolo non è possibile definire l’Arte senza muoverle violenza, ciò da luogo ai tripli carpiati di un arte-artificio promossa dal Mercato, ma anche a realtà meno conosciute di grande valore. Nel mondo delle immagini, la semplice rappresentazione si è svuotata di capacità comunicativa, non ha più la capacità di trasferire al fruitore la verità del rappresentato, ecco che entra in gioco la dimensione Evocativa, alla quale Valerio de Filippis si appella per aprire nuovi orizzonti per l’Arte del XXI Secolo. Questo straordinario Artista con una grande esperienza alle spalle ha rinunciato alla dimensione oggettiva-rappresentativa per dare spazio a quella della Recherche nel senso più puro del termine, priva di inutili sofismi e intessuta di quel “di più” che apre la dimensione spirituale, che rende la sua opera autentica e che trascende quel confine obnubilato tra cosa e Opera d’Arte. Valerio de Filippis è un innovatore: sono ormai cinque anni che sperimenta una complessa tecnica (che l’autore ancora non svela) della quale gli va riconosciuta la paternità. Grazie a questa nuova tecnica, che consiste nel versare su una tavola di legno posata orizzontalmente colore fluido, l’Artista strappa dall’astrazione liquida di questa materia i chiari e gli oscuri che mai rappresentano ma che evocano la figura. Valerio ricerca quel folle obbiettivo che gli permetta di superare il confine tra astratto e figurativo attraverso una evocazione apparentemente involontaria. La dimensione evocativa è fondamentale e capace di disegnare una nuova autenticità per l’Arte del XXI Secolo: in questa si ritrova l’assenza del discorso messaggero di verità. Nell’evocazione non c’è messaggio, non c’è verità, ma chiama ad “essere” forze sconosciute che trovano il loro contenuto di verità nel senso di alètheia nella quale, secondo Martin Heidegger, l’essere si ri-vela come un uscir fuori dall’oblio e dall’essere nascosto; e tuttavia il termine primo di questa resta pur sempre l'oblio, il ritrarsi dell'essere a ogni sua rappresentazione nell'ente. Stiamo parlando di un’incoscienza che diviene coscienza nella disposizione degli elementi formali, che donano l’alètheia e il contenuto non a livello discorsivo, a livello di logos, ma esclusivamente a livello di Forma. Stiamo parlando di un’Arte priva di definizioni ma non priva di contenuto. Stiamo parlando di un contenuto “dialettico”, che non pretende di annunciare nessuna verità ma che si denuncia come menzogna e che racchiude nei suoi sedimenti la Storia e il Tempo, un contenuto profondo e attuale che non è leggibile ma solo interpretabile.
L’Opera di Valerio de Filippis ha una forte rilevanza individuale: emerge un grido, di dolore o di piacere non importa, con un grande valore catartico che trova nutrimento in un inconscio ricco di sedimenti che scalpita per emergere. Una dimensione Dionisiaca che è al contempo fuga e ritorno, e che testimonia nell’opera l’errare dell’Artista. Per Valerio de Filippis l’Arte assume le sembianze della necessità ineludibile, è chiamato a fare per la sua naturale capacità catalizzatrice e di sintesi degli spazi che abita. E’ l’Uomo l’oggetto della sua ricerca. Un uomo collocato in una dimensione scomoda in cui la dissonanza della contingenza si concretizza in flutti di colori irrazionalizzabili. Nelle sue opere non c’è distrazione, armonia, tantomeno una bellezza bugiarda. Troviamo piuttosto temporalità, corruzione, deformazione; echeggia il senso d’inquietudine che è quella dell’Artista e quella del momento storico. Un Presente non bello e dal quale la bellezza potrebbe solo allontanarci in un errare idealistico. La decostruzione dei soggetti è la stessa della decostruzione dell’individuo, una astrazione della soggettività perpetuata colpevolmente dalla disumanizzazione del nostro Tempo.
Ecco che dalla dimensione individuale, l’Opera di Valerio de Filippis acquisisce una rilevanza sociale che ci impone degli interrogativi che non ci ha chiesto. Il brutto, l’irrazionalità dell’esistente, l’assenza del senso non detta ma avvertita come necessità dal fruitore che, criticamente interpreta i significati sempre nuovi che nascono dalla vita interna all’Opera. In questo senso, le immagini di Valerio de Filippis non sono riproduttive ma produttive, cioè prendono dal loro interno quella dialettica con il loro esterno che le fa essere nel mondo e mai astratte da questo. Nonostante ciò l’Artista attraversa dimensioni altre dal mondo che ci rimandano a quell’interrogativo mai detto al quale dobbiamo, per necessità, rispondere. Questa risposta dolorosa evoca quel rapporto con il contingente, col nostro Tempo che disvela la necessità di una trascendenza ora impossibile ma che l’Arte evoca. Senza darci la soluzione, senza essere portatrice di verità, l’Arte di Valerio de Filippis ci spinge a ricercare risposte in una chiave diversa da quella che abbiamo sempre considerato.
Non è facile racchiudere tra la circostanzialità delle parole un contenuto non dicibile ma presente.
Le Opere di Valerio de Filippis sono di grande qualità, lo stile ha superato la tecnica che rimane comunque veicolo della composizione formale. In opere come “Figura” oppure “Figura # 1” vediamo l’Artista che cerca di controllare la forza incontrollabile di un colore che si espande. Questo fiume di pigmento trova il proprio canale nella composizione volumetrica di corpi adombrati e alieni. Schizzi, impurità, corruzioni del colore che non rappresentano mai un compiacimento narcisistico ma piuttosto un’esigenza che non può essere detta ma solo vissuta.
Opere come “Burnt” racchiudono consapevolezze ed essenze della caducità, della finitezza che solo l’Arte sembra farci accettare. Ancora in “Flames/Darkness” troviamo la casualità causata dall’Artista e il richiamo a uno sporco del vivere che ci rimanda alle sovrastrutture costruite nella Storia ma anche alla crudeltà dell’essenziale.
Valerio de Filippis è un’Artista capace di attraversare gli orizzonti della crudeltà e del non senso, le sue opere non sono solo il parto di un idealizzato inconscio d’artista, in parte da questo traggono alimento, ma è il sentimento della vita e per la finitezza, che si concretizza grazie alla riflessione critica e intellettuale, che manifesta contenuti senza dirli ma testimoniandoli, privi di verità ma con un contenuto di verità intrinseca agli elementi sensibili dell’Opera. Valerio de Filippis evoca una verità come alètheia che, se per un verso si disvela, per l’altro rimane sempre in qualche misura in sé stessa, in sospensione, e che solo una fruizione critica che non è mera contemplazione può interpretare.
Dai grandi schermi sui quali gli artisti venduti dal Mercato, trovano spazio e fortuna rinunciando alla critica a causa di una presa di posizione ideologica, sprofondiamo tra le strade popolari di una grande città come Roma, nella quale il Maestro de Filippis vive la sua Opera e disvela nuovi orizzonti per un’Arte senza definizione ma sempre viva e figlia del Terzo Millennio.
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BURNT
Brandelli di lacera certezza,
Fredde ceneri di caldi impeti,
Così banalmente morto,
Così mortalmente banale.
Punto la forma,
Sciolta la linea,
Acido sulla geometria,
Fumo dal tuo petto:
sta morendo un altro inetto.
Arreso divampi e vuoto
perisci; sbricioli schemi
finisci; ridicolo ometto
svanisci; e ride il Tempo.
E cadendo stupri
violento il cemento.
Ammira la tua rovina,
Comprendi le tue scelte?
Scegli le tue comprensioni?
Tenti scioccamente
di bruciare un fiume...
Sublime rido,
di un corpo senza padrone,
deriso e arso dal suo creatore.
Chi desideri mentre il tuo Dio muore?
Chi preghi quando il suo riso
strappa il tuo cuore?
Chi invochi quando il tuo grido
non fa rumore?
Freddo come il fuoco
e caldo come il terrore.
Solo, colori il grigiore...
Ed ecco
a un tratto
Ridi, mortale
senza occhi, ne’ Signore
Sei il tuo Dio
Ed è il mondo che muore...
Thomas Sergnese
Teologia della perdizione
Chiostro San Giovanni, Orvieto (TR)
a cura di Anna Rita Daqua
Associazione Culturale AllucinaNazione
Patrocinata da: Comune di Orvieto, Provincia di Terni Sponsored by: Orvieto town council, Province of Terni
Testi di Lucia Spadano, Francesco Barresi Pieces by Lucia Spadano, Francesco Barresi
Introduzione di Anna Rita Daqua Introduction by Anna Rita Daqua
Traduzioni di Philip Jenkins Translations by PhilipJenkins
Fotografie: Studio Idini Photos by Idini Studio
Progetto grafico: FabioMoriconi Graphic design by Fabio Moriconi
In copertina: Snuff 1 (particolare) Cover: Snuff 1 (detail)
Anno: 2002 Year: 2002
L'associazione culturale AllucinaNazione presenta le ultime opere di Valerio de Filippis, il cui lavoro è frutto di anni di attenta ricerca su quelle che sono le aberrazioni e deviazioni della società moderna. La sua arte è tenebrosa e perversa, surreale ed estrema, come se volesse esplicare in tutti i sensi la realtà che si nasconde nell'alter ego dell'uomo. La produzione pittorica di de Filippis investe lo spettatore attraverso nuances fredde, agghiaccianti, dure, così come dura e disperata è l'autoanalisi che l'uomo compie su se stesso. Autore di opere di grande impatto visivo, che colpiscono al primo sguardo, con amore o con odio, ma mai con indifferenza, de Filippis è un autore moderno e accorto che attraverso un disegno plastico e una linea nervosa si fa manifesto di un'epoca. La sua è un'arte morbosa, che si nutre di incubi e di una tavolozza di neri e rossi in cui la luce non si presenta mai per illuminare ed avvolgere atmosfere calde ma anzi a freddare la scena, quasi a volerla congelare nella mente dello spettatore. Ineguagliabile nel rappresentare il fascino perverso della violenza e gli uomini che, come ciechi, vagano alla ricerca di una bellezza che non sanno identificare, in un mondo nel quale gli egoismi impediscono di comunicare e le tecnologie, come internet, spezzettano ulteriormente fra gli uomini un linguaggio negato.
Ho voluto presentare così questo artista, ispirandomi a brani tratti dalla critica e, come Presidente dell'associazione che ne promuove la mostra, invito a guardare in profondità e con occhio attento le opere di de Filippis ed ogni singolo scenario, sui problemi e sulle tematiche dell'uomo contemporaneo, al fine di riportare la funzione dell'arte a quella della riflessione.
Anna Rita Daqua
The cultural association AllucinaNazione is pleased to present the most recent paintings of Valerio de Filippis, whose work is the fruit of years of attentive research on the aberrations and deviations of modern society. His art is dark and perverse, surreal and extreme, as if he wanted to explain in full the reality which is concealed in man’s alter ego. De Filippis’s pictorial output engages the viewer by using shades of meaning which are cold, transfixing and hard, in the same way that the self-analysis that man carries out upon himself is hard and despairing. A painter of works with a great visual impact which impress at the first glance, inspiring love or hate but never indifference, de Filippis is an artist who is both modern and adroit, who by means of the plasticity of his artistic conceptions and an incisive line makes a manifesto of an epoch. His is a morbid art which feeds both on nightmares and on a palette of blacks and reds, in which light is never there to illuminate or to create warm atmospheres but rather to impart a chill to the scene, almost as if to freeze it in the mind of the viewer. He is without equal in representing the perverse fascination of violence and the wanderings of human being, who as if blind are searching for a beauty which they are at a loss to identify. The world inhabited by such figures is one in which egoism prevents communication and technologies such as the internet further fragment between people a language which is already of no use. It has been my intention to present this artist by means of extracts from the writings of critics and as chairperson of the association that is promoting the exhibition and I would like to invite you to take this opportunity to examine the works of de Filippis closely and thoughtfully, scrutinizing each individual scenario which deals with the problems and themes of contemporary man, in order to restore the role of art to that of reflection.
Anna Rita Daqua
Teologia della perdizione
di Lucia Spadano
Valerio de Filippis, con i suoi lavori, sembra voler ricondurre tutte le esperienze di questi ultimi anni riconducibili
all’interesse per il corpo ad una unità diversamente fondata. Non più l’appostarsi dietro la virtualità per poi tentare un vano radicamento nel sé attraverso l’incremento di una violenza il cui
bersaglio oramai non ci appartiene più, ma la riconquista di quel bersaglio stesso con armi apparentemente tradizionali. Le sue armi sono quelle della pittura e del disegno, dell’invenzione
simbolica e della prensilità nei confronti dell’arte contemporanea, intesa quest’ultima come coesistenza storica di poetiche consolidate e scaltrite sì dal contatto con la fotografia ed il
cinema, con la pubblicità e la manipolazione mediale, ma pur sempre pronte a rispondere in proprio della loro strategia comunicazionale, della loro ambizione a produrre significato. Ecco dunque
che il corpo, martoriato, offeso, assalito, riappare, al di là del mezzo usato, al di là del registro espressivo adottato, con tutta la sua capacità di attrarre e respingere, di sedurre e di
disorientare, di coinvolgere e di annichilire.
E’ un corpo segnato dal dolore, ma anche un corpo che non rinnega il piacere che avrebbe potuto donare o donarsi. E’ un corpo teso fino allo spasimo ma anche smarrito nei meandri della sua stessa tensione. Il paragone può apparire azzardato e senz’altro per molti versi lo è, tuttavia non possiamo esimerci dal notare che le opere più e meno recenti di de Filippis, osservate così una accanto all’altra, una nell’atto di dialogare con l’altra (o anche di contraddirla), evocano una chiamata a raccolta di sapore Dantesco, quasi un concorrere al Giudizio Finale di chi è già stato giudicato e condannato, e tuttavia ha ancora molto da dire, molto da rivelarci non su se stesso e sulla tragedia di cui si fa portatore, ma sul dramma umano nella sua interezza, nella sua infinita varietà che comunque ruota sempre attorno agli stessi parametri, alle stesse contraddizioni, alle stesse forme di incommensurabilità. De Filippis ama mostrarsi scettico sulla possibilità di ricondurre ad un equilibrio il gioco con cui l’uomo è chiamato a misurarsi; come un teologo della perdizione sembra propendere per l’insanabilità. Tuttavia l’artista romano non si nasconde dietro le tecniche della riproduzione, dietro l’apparenza della ripresa gelida e oggettiva, piuttosto egli forgia le sue immagini, con la mano e con il pensiero, con passione pari alla sottigliezza e con irruenza pari all’abilità tecnica. E tornare a pensare in termini di arte legata alla soggettività, all’interezza e all’esperienza della persona che agisce e crea, vuol dire pur sempre proporre una forma di “elaborazione”, una strategia di ricongiungimento alla soggettività binaria dell’ego di quella indistinzione primaria che è il corpo, di quella insondabilità del vivente che la cultura del visivo, seguendo le indicazioni di de Filippis, ci ha aiutato ad estroflettere e conoscere come rispecchiamento in qualche modo collettivo.
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Oscena progenie
di Francesco Barresi
Roma, maggio 2002
Coraggiosa ed originale è la ricerca artistica di Valerio de Filippis, che si sviluppa attraverso una provocatoria rappresentazione di personalissimi abomini silenti e scultoree presenze di vuoti infernali, riempiti a sprazzi solo dalla flebile luce della disperazione umana.
Definitolo in altre sedi come intellettuale della violenza velata, tra lo strabordare dei cromatismi pittorici delle sue tavole, emergono allusivi riferimenti alla drammaticità degli eventi umani, da cui forse l’autore stesso è inesorabilmente e morbosamente attratto: la pittura di de Filippis è il soddisfacimento catartico dei bisogni più inconsci di ogni essere umano.
Obscene progeny
by Francesco Barresi
Rome, may 2002
The artistic undertaking of Valerio de Filippis is courageous and original, developing by means of a provocative representation of the most personal, silent abominations and the sculptural presences of infernal voids, filled only intermittently by the faint light of human despair.Described elsewhere as an intellectual of veiled violence, among the repeated emphasis on colour which imparts an overflowing quality to his paintings, there emerge allusive references to the drama of human events, to which perhaps the painter himself is inexorably and morbidly attracted. De Filippis’s painting is the cathartic gratification of the most unconscious needs of every human being.
Nei suoi quadri troviamo anche riferimenti ai cataclismi provocati dalla guerra: un Cristo di daliniana memoria, è martoriato dalla reazione omicida di un Occidente ferito e mutilato e dal fanatismo suicida dei nemici dei culti occidentali. E così, l’atroce calvario del protagonista, tra flutti impetuosi di esplosioni sanguigne, sembra essere vissuto e condiviso dall’ autore, attraverso una passione ed un’ empatia che, trasversalmente, troviamo pure in tutte le sue opere.
In his painting we also find references to cataclysms brought about by war: a Christ, with a Dalinian memory, is martyred by the homicidal reaction of a wounded and mutilated West and by the suicidal fanaticism of the enemies of Western creeds. And in this way, the terrible Calvary of the protagonist, among the violent surges of blood-red explosions, appears to be lived and shared by the painter, by means of a passion and an empathy which, obliquely, we also find in all his works.
In quest’ottica, l’assunto introspettivo di Valerio de Filippis non solo sembra pertenere propriamente all’ universo pittorico, fatto tutto di slanci creativi basati su di un espressionismo shock, ma anche a quello “radiografico”, dove l’autore immortala la realtà a lui circostante filtrandone ciò che non sempre è visibile: de Filippis pennella con oculata malizia le suggestive deviazioni della società moderna, attraverso enucleazioni policrome che soggiacciono solo al suo estro creativo, malato e perverso. E’ un’ umanità corrotta e spezzata quella che ci offre l’artista nelle sue opere, ma per questo meritevole di rispetto autentico, quel rispetto che nasce dalle emozioni che le stesse sono capaci di suscitare. Palindromi della contestazione, i ritratti di de Filippis spiazzano per la loro crudeltà intellettuale le nostre menti razionali e retrograde, attraverso la rappresentazione della carne decontestualizzata.
From this point of view the introspective undertaking of Valerio de Filippis does not only appear to belong specifically to the pictorial universe, entirely composed of creative impulses based upon a shock expressionism, but also to that of the “x-ray”, where the painter immortalizes the reality surrounding him, filtering from it that which is not always visible. De Filippis shrewdly and knowingly paints the temping deviations of modern society, by means of polychrome enucleations that are only subject to his creative inspiration, which is tormented and perverse. It is a humanity which is corrupted and broken that the artist offers us in his works, but for this he is worthy of genuine respect, that respect which is born from the emotions which the works themselves are capable of arousing. Palindromes of criticism, de Filippis’s portraits catch our rational and retrograde minds unaware by their intellectual mercilessness, by means of portraying decontextualized flesh.
Apparentemente disturbanti, le tele del de Filippis sono la semplice raffigurazione oleo- radiografica della realtà circostante cui lo stesso autore appartiene.
Il genio estremo di de Filippis produce un’arte oscura e perversa, ma nello stesso tempo dannatamente rassicurante. Le sue figure plastiche, difatti, se pur mostruose sono raffigurate attraverso una edulcorata rappresentazione delle aberrazioni della natura umana: freaks, demoni, abietti assassini e criminali sociopatici sono ritratti, sul tragico carrozzone del circo defilippiano, nella loro stessa malata, ma nel contempo, compassionevole naturalezza.
L’autore sublima la propria pulsione dell’ efferato e realizza tutto ciò attraverso angosciosi quadri che raffigurano l’immota dualità della natura umana: quella benigna, subordinata e quella matrigna, dominante.
On the face of it disturbing, de Filippis’s canvases are the simple representations in the form of an oil painting, which is at the same time an x-ray of the surrounding reality to which the painter himself belongs.
The extreme genius of de Filippis produces an art which is dark and perverse, but which is at the same time also infernally reassuring. His plastic figures, indeed, while they are certainly monstrous are conceived by means of an attenuated representation of the aberrations of human nature: freaks, demons, sordid assassins and sociopathic criminals are portrayed, on the tragic caravan of de Filippis’s circus, in their selfsame natural way which is sick, but in the meantime also piteous.
The painter sublimates his own savage drive and realizes all of this by means of anguished paintings that depict the motionless duality of human nature: the kind and subordinate side as well as the cruel, dominant one.
Ed eccolo, l’ universo malato da cui è attratto il de Filippis, popolato da
fantasmi che, rappresentandoli, riesce ad esorcizzare e in questo modo allontanare.
Grandi madri informi e palesemente ermafrodite ne sono poi la tragica rappresentazione: quella di un’umanità distorta, malforme e ripugnante, ma al tempo stesso così dignitosamente autenticata dalla carica poetica che l’ autore riesce a restituirle.
And here it is, the pathological universe to which de Filippis is attracted, inhabited by ghosts which are successfully exorcized and thus removed by being portrayed. Large mothers who are shapeless and clearly hermaphroditic are its tragic representation then, that of a distorted humanity, malformed and repugnant, but as the same time authenticated with such dignity by the poetic charge which the artist succeeds in the restoring to it.
Alle inquietanti figure pittoriche delle putride matrone defilippiane, si contrappongono le plastilinee figure femminee che, tese tutte in uno sforzo posturale smaccatamente seduttivo, maliziosamente
si esibiscono nei loro corpi nudi
al nulla, cui sembrano tendere anche per opera di un killer, forse seriale, in letale agguato omicidiario. La donna, la Grande Seduttrice, è punita e ne è scarnificata l’essenza del male che si assopisce, sornione, nella profondità delle
sue calde rigogliose viscere.
A contrast to the disturbing painted figures of is provided de Filippis’s putrefied matrons is provided by the feminine figures which look as if they were modelled in plastiline and which, all tense in an effort of posture which is brazenly seductive, maliciously show off in their naked bodies to the void, to which they appear to reach out also through the action of a killer, perhaps serial, in a lethal homicidal ambush. Woman, the Great Seductress, is punished and stripped of the essence of evil that is appeased, sly one that she is, in the depths of her hot and exuberant viscera.
Oscena progenie di esseri informi che annacquano nel mantra magmatico dell’oblio infernale, sembrano essere le caricature dello stesso orrore, ma pure velate di una melanconica tristezza, che permea di sé l’immagine della decadenza, ostentandosi penosamente allo spettatore attonito ed ormai incredulo di fronte a tanta abietta concupiscenza. Torvo è difatti l’animo di chi vive il guasto universo di de Filippis, che riesce ad ottundere chi lo visiona ed attanagliare chi lo legge, anche attraverso un insito cinismo emozionale di diabolica e rara maestria, che solo l’autore è capace di infondere allo spettatore sgomento.
Obscene progeny of shapeless beings that dilute in the magmatic mantra of infernal forgetting, they seem to be caricatures of the same horror, but also to be veiled in a melancholy sadness, which of its own accord permeates the image of decline, flaunting itself with difficulty at the viewer who is thunderstruck and almost incredulous in front of so much abject craving.
Dark indeed is the soul of the person who lives the ruined universe of de filippis, who succeeds in dulling its viewers and in gripping its readers, even by means of an inborn emotional cynicism of a diabolical and rare mastery, with only the painter being capable of causing the viewer consternation.
Ed ancora un osceno Dio priapico sembra avere nelle proprie mani il destino, oramai segnato, del mondo e della sua sordida umanità, stretta in una morsa tra nuvole di oscura fuliggine infernale.
Il tempo e le ideologie sono stravolti, sospesi quasi in una nuova dimensione limbico-atemporale, dove l’autore ripercorre le gesta nefande dell’umanità e solo quelle.
Sembra quasi che il de Filippis voglia in queste sue tele esprimere tutto il proprio rancore nei confronti di una razza, quella umana, cui egli stesso appartiene e, forse, ne condivide anche i suoi fantasmi malati quanto nascosti, colpevole della propria degenerazione ed autodistruzione, evocando così simbolismi archetipali propri del maledettismo pittorico.
And yet an obscene priapic God appears to have in his own hands the destiny, by now sealed, of the world and of its sordid humanity, huddled together and gripped in a vice among clouds of dark infernal soot.
Time and ideologies are contorted, suspended almost in a new dimension in limbo and outside of time, where the artist reviews the iniquitous deeds of humanity and only those. It seems almost as if de Filippis wants to express in these canvases all of his resentment towards a race, namely the human one, to which he himself belongs and, perhaps, with which he also shares his phantoms which are as pathological as they are hidden, guilty of their own decline and self-destruction, thus evoking archetypal symbolisms of their own of the pictorial defiance of social conventions.
Ma l’apoteosi del ”malsano” è forse rappresentata maggiormente dai lavori che appartengono al filone “ideativo-religioso”, dove è rappresentata la denuncia (neanche tanto velata) dell’Istituzione religiosa come noi la conosciamo.
But the apotheosis of the “unhealthy” is perhaps mainly to be found in the works that belong to the “ideational-religious” strand of the artist’s work, where what is portrayed is the denunciation (nor is it such a veiled one) of the religious Institution as we know it.
Il Bene traslato e decaduto è oramai una lontana parodia del principio esasperato dell’assoluta dedizione ad un credo, i cui corrotti depositari della legge divina, una volta indefessi sessuofobici incalliti ed ora pedofili passionali e devoti satanisti, esprimono la propria povertà morale rappresentata da una perdizione nella caducità della Dea carne, espressa da liberatori ed ineluttabili onanismi solipsistici.
Metaphorical Good which has gone to the bad is by now a distant parody of the extreme beginning of the absolute dedication to a credo, whose corrupt guardians of the divine law, once tireless and hardened human beings with a phobia towards sexuals activity and now passionate paedophiles and devoted Satanists, express their own moral poverty represented by a damnation in the transience of the Goddess made flesh, expressed by liberators and inevitable solipsistic act of masturbation.
Pittura della religione infernale, raffigurazione della perversa devozione clericale, incarnazione del caos irrazionale di un ultraterreno demoniaco ci fanno scrivere, con le parole di Huysmans che “i satanisti sono mistici a livello immondo, ma sempre mistici”.
La decadenza dei protagonisti, la loro espressione di un incontrovertibile, esasperato ed ossessionante nichilismo, marciano solenni ed austeri in un misticismo corrotto e simbiotico con l’autore, votato all’obbedienza dell’oblio e della terrena dissoluzione umana.
Painting of the infernal religion, portrayal of the perverse devotion of the clergy, incarnation of the irrational chaos of a demonic world beyond this one bring to mind the words of Huysmans, namely that “the Satanists are mystics at the level of uncleanliness, but are still mystics”.
The decadence of the protagonists, their expression of an incontrovertible, extreme and obsessive nihilism, march solemnly and sternly in a mysticism which is corrupt and symbiotic with the painter, consecrated to obeying forgetfulness and the earthly dissolution of humanity.
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Valerio de Filippis, teologo della perdizione?
di Philip Jenkins
Nelle opere più recenti di Valerio de Filippis, che si possono unire sotto l'etichetta della "teologia della perdizione", si possono distinguere le energie distruttive che minacciano l'umanità, le quali sono di tal potere che sono quasi irresistibili. Carnevale o L'avvento della Grande Bestia (2001) esprime questo fenomeno tematicamente nel protagonista grande e malevolo che estende le sue dita sul globo con la conflagrazione alle spalle.
Valerio de Filippis, theologian of Perdition?
by Philip Jenkins
The most recent paintings of Valerio de Filippis, which can be grouped together under the heading of the theology of perdition, appear to have been created with the conviction that the forces of destruction that threaten mankind have become so powerful that they cannot be resisted. Emblematic of this is the large work Carnival or The coming of the Great Beast (2001), in which a large, malevolent protagonist spreads his fingers over the globe against a background of conflagration.
Valerio de Filippis, teólogo de la perdición?
Philip Jenkins
En las últimas obras de Valerio de Filippis, que se pueden agrupar bajo la
etiqueta de la teología de la perdición, es posible distinguir las energías destructivas que amenazan la humanidad, las cuales son de tal poder que son casi irresistibles. Carnaval o La llegada
de la Bestia Grande (2001) exprime este fenómeno temáticamente en el gran protagonista malévolo que extiende sus dedos sobre el globo con la conflagración a sus espaldas.
Un conflitto violento fra maschile e femminile era evidente nei quadri
precedenti, ma una visione ancora più severa domina quelli che seguono. Possiamo vedere nel Corpus Hypercubicus di Dalì tra due fuochi (2001) una risposta all' 11 settembre 2001 e la guerra in
Afghanistan. L'artista mette in primo piano l'immagine del Cristo daliniano e una delle teste primitive di Giacometti, come se l'unica risposta adeguata fosse il rivolgersi al repertorio moderno
di immagini artistiche.
A violent conflict between the masculine and the feminine was sometimes evident in earlier paintings, but those which followed have pursued a darker vision.
We can see in Dali's Corpus Hypercubicus between two conflagrations (2001) a response to the attacks of 11 September 2001 and the war in Afghanistan. The painter places the image of Dali's Christ
and one of Giacometti's primitive heads in the foreground, as if drawing on the modern repository of artistic images were the only adequate response.
Un conflicto violento entre masculino y femenino era evidente en los cuadros precedentes, pero una visión aún más severa predomina en los
siguientes. Podemos ver en El Corpus Hypercubicus de Dalí entre dos conflagraciones (2001) una respuesta al 11 de septiembre 2001 y a la guerra en Afganistán. El artista pone en primer plano la
imagen del Cristo dalinano y una de las cabezas primitivas de Giacometti, como si la única respuesta apropiada fuera el recurso al repertorio moderno de las imágenes
artísticas.
Valerio de Filippis adopera la forma tradizionale del trittico nei quadri più recenti, ma questa scelta formale fa pensare più all'arte di Francis Bacon che all’altare cattolico. Bacon usava il trittico per creare una dinamica fra figure isolate, mentre de Filippis lo usa per suggerire un rapporto narrativo. I due trittici Snuff I e Snuff II (2002) presentano la degradazione del corpo umano al livello più personale della violenza ritualizzata.
Valerio de Filippis has used the traditional form of the triptych in his most recent paintings, but this formal choice is more reminiscent of the art of Francis Bacon than of the
Roman Catholic altar. Bacon used the triptych to create a visual dynamic between isolated figures, whereas de Filippis uses it to suggest a narrative relationship. The two triptyches Snuff I and
Snuff II (2002) present the degradation of the human body at a more personal level of ritualized violence.
Valerio de Filippis adopta la forma tradicional del tríptico en sus últimos cuadros, pero esta preferencia formal nos
recuerda más al arte de Francis Bacon que al altar católico. Bacon usaba el tríptico para crear una relación dinámica entre las figuras aisladas, mientras de Filippis lo usa para sugerir una
relación narrativa. Los dos trípticos Snuff I y Snuff II (2002) presentan la degradación del cuerpo humano al nivel más personal de la violencia hecha ritual.
Il fascino dell’obesità è una variazione sul tema della perdizione. Se in Bondage
Iubilaeum II (2002) l'artista dipinge una turpitudine morale, in Freaks Beauty (2002) prova più gioia nella obesità graziosa.
A variation on the theme of perdition is the fascination with obesity. While portraying this as moral turpitude in Bondage Iubilaeum II (2002), the
artist takes greater delight in the obese physical form in Freaks Beauty (2002).
La fascinación por la obesidad es una variación del tema de la perdición. Se en Bondage
Iubilaeum II (2002) el artista representa una vileza moral, en Freaks Beauty (2002) encuentra más alegría en una obesidad hermosa.
La risposta italiana all'arte di Valerio de Filippis si preoccupa per la visione
difficile dell'artista. Il fulcro del dibattito che precedette l'apertura della mostra a Palazzo Ferrajoli a Roma in ottobre 2001 era la possibilità di accettare questa visione. Ed i quadri piú
recenti esposti a la XXIII edizione di Expo Arte a Bari e a la mostra in Orvieto in giugno 2002 suscitavano molta discussione per la loro tematica.
Debate in Italy has centred on the difficult vision of Valerio de Filippis. The crux of the discussion which preceded the opening of the exhibition at the Palazzo Ferrajoli in Rome in October 2001 was the possibility of accepting this vision. And the most recent pictures which were exhibited at the 23rd Expo Arte in Bari and at the exhibition in Orvieto in June 2002 were the cause of much discussion because of their subject matter.
La respuesta italiana al arte de Valerio de Filippis se
preocupa por la visión difícil del artista. El fulcro del debate que precedió a la inauguración de la exposición en el Palacio Ferrajoli a Roma en octubre 2001 era la posibilidad de aceptar esta
visión. Y las obras últimas que se veían en la vigésima tercera edición de Expo Arte en Bari y a la exposición en Orvieto en junio 2002 suscitaban mucha discusión por su temática.
Comunque, ciò che colpisce me, è la plasticità della pittura defilippiana,
l'aderenza a materiali tradizionali, la mediazione della violenza nell’opera e il campo epico che raggiunge tale opera di tanto in tanto.
However, what strikes me as outstanding is the plasticity of Valerio de Filippis's painting, his adherence to traditional materials, the mediation of violence in his work and the epic scale that this work occasionally reaches.
Sin embargo, lo que me impresiona es la plasticidad de la pintura
del artista italiano, su adhesión a los materiales tradicionales, la mediación de la violencia en las obras y el campo épico a quien las obras llevan a veces.
Ed il pittore Livio Orazio Valentini (San Venanzo, 1920) conosciuto per la sua reinterpretazione degli affreschi del Signorelli nella Cappella Brizio
del Duomo di Orvieto nel 1985, sottolineó le capacità pittoriche di de Filippis in una conversazione privata nel mezzo di una reazione orvietana scandalizzata.
Preferirei capire Valerio de Filippis come un messaggero in una tragedia della Grecia Antica che presta testimonianza a un disastro terribile, e non
come un pittore tormentato da demoni personali. È il mondo tormentato che trova un'espressione chiara nelle sue opere.
And the established Italian painter Livio Orazio Valentini (b. San Venanzo, 1920) renowned
for his 1985 reinterpretation of the Luca Signorelli frescoes in the Brizio Chapel of Orvieto Cathedral, underlined de Filippis's abilities as a painter in a private conversation in Orvieto in
the middle of a scandalized reaction to the younger artist's work.
I would rather see Valerio de Filippis as a messenger in an ancient Greek tragedy who bears witness to a terrible disaster, than as a painter tormented by personal demons. It
is the torment of the world that finds a clear expression in his striking work.
Y el pintor italiano Livio Orazio Valentini (San Venanzo, 1920) conocido por su reinterpretación de los frescos de Signorelli en la
Capilla Brizio en la iglesia catedral de Orvieto en 1985, destacó las capacidades artísticas de de Filippis en una conversación privada en medio de una reacción orvietana
escandalizada.
Preferiría entender Valerio de Filippis como un mensajero en una tragedia de la Grecia Antigua que es testimonio de un desastre muy
grande, y no como un pintor atormentado por demonios propios. Es el mundo atormentado que encuentra una expresión clara en sus obras.
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Just a moment (2009) Tecnica mista su legno/Mixed media on wood, cm (70 x 100)
MI 23 (2009) Tecnica mista su legno/Mixed media on wood, cm (80 x 100)
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Progetto grafico: Anna Rita Daqua
Fotografie: Romolo Paradiso
Traduzioni: Aurora Santoro
In copertina:
Ne parliamo / We are talking about it (1998) - olio su legno/oil on wood, cm (80x60)
Testi critici e saggi di: Francesco Barresi, Giovanni Dotoli, Santa Fizzarotti, Gabriele La Porta
Francesco Barresi, sociologo e criminologo, lavora presso il Ministero dell’Interno e svolge la sua attività per il COISP – Sindacato di Polizia. Collabora con le maggiori Università di Roma in qualità di libero docente e con la rivista di investigazione e criminologia Detective & Crime Magazine. Ha pubblicato Mafia ed economia criminale (EDUP, 2000) e Sette religiose criminali. Dal satanismo criminale ai culti distruttivi
(EDUP, 2001).
Giovanni Dotoli, professore ordinario di Lingua e Letteratura francese all’ Università degli studi di Bari,
specialista del XVII, del XIX e del XX secolo e direttore di collane e riviste, anche in coedizione internazionale, è poeta di lingua italiana e francese. Ha pubblicato diverse raccolte poetiche in Italia e in Francia.
Santa Fizzarotti Selvaggi, scrittrice e critico d’arte; psicologo-psicoterapeuta, specialista in psicologia clinica. Ha vinto numerosi premi e ottenuto molti riconoscimenti. Tra le sue pubblicazioni: Vissi d’arte (1990), Il giardino incantato (1994), Il luogo amato dell’Arte (1997), Il cuore dell’altro (2000), La luna nel canneto (2000), amoremio (2001).
Gabriele La Porta, già direttore di Raidue dal 1994 al 1996, attualmente è Direttore di RaiNotte e preside dell’Università “Ludes” di Lugano. Tra le sue pubblicazioni: La Magia (RaiEri – Marsilio), Storia della magia,
Giordano Bruno (Bompiani), Il ritorno della Grande Madre (Il Saggiatore).
(Note biografiche aggiornate al 2001)
Ne parliamo / We are talking about it (1998) - olio su legno/oil on wood, cm (80x60)
La mia misura è l'eccesso...
Valerio de Filippis
La quiete del Terrifico
di Santa Fizzarotti Selvaggi
Si tratta di una voce che,
stranamente, non trasmette
che delle proibizioni divine.
Jean-Joel Duhot
Guitti/Strolling players (1980) olio su tela/oil on canvas, cm ( 60 x 40)
Impregnata di ombra appare la pittura di Valerio de Filippis, dalle evocazioni surrealiste, intrise dei simboli eterni dell’umanità. Il corpo appare all’improvviso alla ribalta di luci inquietanti e fosche che si nutrono delle tenebre eterne del dolore più oscuro e profondo dell’essere umano.
Dalla Natura luminosa delle cose al racconto ermetico di un sguardo inquieto. Anche Socrate ha spesso affermato che “accadeva qualcosa di divino e di demonico”(1). In ogni caso de Filippis non passa all’atto come in qualche performance contemporanea accade. E’ sufficiente ricordare l’opera degli Azionisti Viennesi che hanno riproposto in forma drammatica il “corpo”. Herman Nitsch, per esempio, copriva di viscere di animali i ragazzi nudi distesi per terra. In definitiva, anche se in forma cruenta, Nitsch ha invitato ad un nuovo modo di “ripensare” il rapporto con la Natura divenuto eccessivamente violento e forse per alcuni aspetti perverso. La Scuola di Vienna con Nitsch, Rainer, Brus, Rot, Schzarzkogler si è sempre presentata come shock in modo che il presente riuscisse a permettere una riflessione sulla storia umana e le sue radici. Questi artisti hanno utilizzato il corpo come Oggetto e non già come Soggetto di Storia mentre de Filippis si avvale della chiarezza espositiva, della lucidità degli eccessi, della visione di incubi notturni senza per questo andare l’oltre del corpo, utilizzando la figura corporea per il modellamento di un Altro, dell’Alterità dentro di noi.
Nelle sue opere drammaticamente egli manifesta tutto ciò che di inedito si nasconde della natura umana come parte integrante della stessa. In tal senso all’improvviso sulle tele dilaga l’angoscia, e la coscienza si ritrova ad essere quella punta estrema di un universo nascosto che racchiude tutte le memorie del mondo. I toni sono cupi, le variazioni brune si mescolano a quelle nere e azzurre: si tratta degli aspetti abissali della catastrofe della modernità. L’impresa ardua dell’artista è in questo caso quella di far vedere le forme sommerse dell’essere umano che la Ragione tenta di addomesticare: siamo spesso attratti dalle soluzioni perverse e dall’orrore. Si tratta del sublime che turba e commuove. Ma forse in verità è come se proiettando sugli altri tutto il male del mondo noi ne fossimo esclusi. La nostra ferita narcisistica viene così apparentemente lenita: ma la visione di tale realtà senza separazione dalla stessa e successiva elaborazione non facilita la costruzione dello spazio della coscienza.
Ed è così che l’Io appare drammaticamente dilaniato tra due indomiti guerrieri: l’Es e il Super Io. D’altra parte Chasseguet-Smirgel scrive che “Ferenzci afferma che il desiderio fondamentale dell’umanità è quello di ritornare nel grembo materno”, lì dove “la frattura tra l’ Io e l’ambiente non ha ancora avuto luogo” (2). Una conoscenza fatta di istinto, intrisa di quelle pulsioni che abitano l’essere umano.
Valerio de Filippis non ha remore nel far ascoltare le urla del Silenzio di quei luoghi che tutti neghiamo, ma che fatalmente governano la nostra vita, i nostri rapporti con il mondo, la nostra intimità. Gli incubi popolano i suoi sogni e le sue veglie diurne: il paesaggio assume un’atmosfera metafisica e si trasforma in un luogo sconfinato dove lo sguardo si fa tattilità mentre percorre lo spazio morbido della Memoria. Di qui la costruzione di lontane architetture in cui la Natura è Mente. In tale ottica tutta la sua narrazione pittorica assume il senso della plasticità e recupera la vibrazione propria della pittura ad olio.
Nel lavoro di questo artista il corpo-natura appare come l’oggetto elettivo della mente. Tutto ciò vuol dire che “ la mente, ovvero il ‘Bino’, deriva direttamente dal corpo, l’ ‘Uno’, e che la sua funzione primaria è quella di contenere ed organizzare la spinta sensoriale che ivi origina”, come scrive Riccardo Lombardi (3). In realtà è l’organizzazione dei sensi che fa sì che il corpo percepisca, si muova nello spazio e nel tempo, conosca, immagini e pensi.
La disorganizzazione sensoriale conduce il corpo alla frantumazione. Così come l’eccessiva ricerca del piacere nella violenza come unica forma di godimento porta alla negazione del corpo: vale a dire ad un oscuramento, una sorta di “eclissi del corpo”, di tutte quelle condizioni mentali che sollecitate dalla emozione generano i processi cognitivi, nuovi modelli di identificazione e nuovi linguaggi. Il rapporto dell’Io con l’oggetto d’amore primario (la madre) affiora in tutta la sua nascosta pregnanza che ormai dilaga nelle esperienze della contemporaneità: la rappresentazione del corpo sulla scena dell’arte diventa terrifica e sublime. La quiete del terrifico e di tutto ciò che si inscrive oltre il dolore deborda dalle tele di de Filippis. Si stabilisce così una difficile condizione di con-tatto tra sé e l’Altro: una sottile attrazione verso la follia travolge lo sguardo dello spettatore mentre la relazione corpo-mente lascia emergere una terza area che ha a che fare con quella terra del divieto che si indica con il nome di Inconscio. Ed è così che centrale diviene quell’ “Oggetto Originario Concreto” teorizzato da A. B. Ferrari che non è soltanto il corpo, ma, secondo la mia esperienza, è il corpo Altro (la Madre) confuso con il nostro stesso corpo.
Ed è su tale inquietante arcaica relazione che si fondano i processi di pensiero individuali. Ed è appunto tale sensazione originaria che si porrà sempre quale elemento di “congiunzione tra l’emozione e il pensiero, tra Inconscio strutturale e Coscienza, ma soprattutto punto di incontro tra corpo e mente” (4).
In verità oggi forse solo l’Arte può esplorare quei nuclei psichici profondi che con veemenza affiorano nella realtà nel tentativo di avviare processi di comprensione, interpretazione ed elaborazione degli stessi. Ancora una volta l’arte può assolvere alla sua funzione “ salvifica” e rigenerante della storia dell’umanità.
La fandonia dell'oracolo/The tall story of the oracle (1980) olio su tela/oil on canvas, cm (50 x 40)
"Io sono un uomo che vorrebbe vivere una vita eroica
e rendere più sopportabile il mondo ai suoi occhi..."
Henry Miller
Nell’opera La fandonia dell’oracolo (1980) la composizione è ironica nella sua solennità: la terra appare spaccata da un antico sisma, gli alberi sono il ricordo di tutto ciò che è stato, non esiste futuro che non sia già avvenuto. Così come in un lavoro del 1989 dal titolo Amore ai margini di un’autostrada si avverte la presenza della natura ambigua dell’identità. Il silenzio deborda in Ne parliamo del 1998: due figure ai margini della tela non guardano da nessuna parte così come appaiono perse nel labirinto di un linguaggio sconosciuto che racconta l’inenarrabile.
Amore ai margini di un autostrada/Love on the edge of a freeway (1989) olio su tela/oil on canvas, cm (70 x 82,5)
"Verso di voi, così belle, il mio pensiero non muterà mai."
Saffo
Le opere di de Filippis sono attraversate dal senso della nullità dell’essere, dall’angoscia della morte e del vuoto: ne La bestia (1999) e nella Serie dei sette peccati capitali: Vanità (2001) l’artista lascia intravedere l’essenza stessa della palude mortifera di Narciso, del male, del piacere estremo della violenza che equivale alla sottomissione dell’Altro, alla spersonalizzazione dell’essere umano, all’annullamento di qualsiasi forma di linguaggio che non sia quella della prevaricazione, della tirannia, di Thanatos.
La bestia/Bete noire (1999) olio su legno/oil on wood, cm (90 x 80)
"Una parte del corpo tuo
lacrima al paese che rende schiavi
che conquista lesioni per corpi trasgredenti
e sconosciute aggressività prossime comprese,
fino a rompere la terra
calpestando un bene perduto,
sapienzale atto di guerra".
Fortunato Bruno
Serie dei sette peccati capitali/Series of seven deadly sins: Vanità/Pride (2001) olio su legno/oil on wood, cm (110 x 90)
"Allora, se richiesto dove la tua bellezza giace,
dove il tesoro dei tuoi gagliardi giorni,
rispondere ch'essi s'adagiano infossati nei tuoi occhi
per te vergogna bruciante sarebbe e ridicolo vanto."
William Shakespeare
Di qui il livore dei volti, la plasticità delle figure e dei corpi, il sarcasmo e il dolore che affiorano dagli sguardi dei vincitori e dei vinti. Il Maschile e il Femminile non sono soltanto fra loro contrapposti, ma l’uno ostile all’altro, pregni di assoluta Estraneità. I miti della contemporaneità non sono differenti da quelli delle altre epoche poiché l’inconscio non ha luogo nè tempo. A lungo negati e repressi quegli stessi miti sono diventati feroci nella prigione della cosiddetta ragione. Di qui la difensiva atmosfera metafisica che affiora da tutti i lavori di Valerio de Filippis che con sofferenza riconosce la “ fisicità “ in tutta la sua terrifica pregnante realtà come parte rimossa dell’umanità: in tal senso lentamente con la parola pittorica modella il nucleo della coscienza all’interno della quale illumina le mostruosità dell’essere umano rendendole inoffensive attraverso un processo catartico di rigenerazione e di riscatto.
NOTE
1. J.J. Duhot, Socrate o il risveglio della coscienza, Borla, Roma 2000,p.88
2. J. Chasseguet-Smirgel, Creativita’ e perversione, Raffaello Cortina, Milano, 1987, p.40
3. R. Lombardi, Corpo, affetti, pensiero. Riflessioni su alcuni ipotesi di I.Matte Blanco e A.B. Ferrari in Rivista di Psicoanalisi, 2000,XLVI, 4, Borla Roma,p.p. 691-698.
4. R. Lombardi, op.cit.
Santa Fizzarotti Selvaggi
Bari, settembre 2001
Essere o tempo
di Gabriele La Porta
Nessuno conosce la sua dimora
essa è nell'errore
e la sua esistenza è impostura.
William Blake
La fandonia dell'oracolo/The tall story of the oracle (1980)
olio su tela/oil on canvas, cm (50 x 40)
"Io sono un uomo che vorrebbe vivere una vita eroica
e rendere più sopportabile il mondo ai suoi occhi..."
Henry Miller
Richiami carichi di suggestione sono quelli che provengono dalle opere di Valerio de Filippis. E non solo per le immagini in se stesse, offerte dai quadri, ma anche per i titoli ed inoltre per le belle citazioni letterarie che l'artista abbina ad ogni quadro. Questi elementi verbali sono ben lungi dal risultare esplicativi, in senso stretto, rispetto all'opera pittorica, in quanto non sono stati predisposti con il ruolo di riprodurre, con una semplice sovrapposizione, quanto viene espresso dal linguaggio delle immagini. Ne deriva così un complesso ed evocativo discorso d'insieme sul piano concettuale e storico.
Già il primo quadro di questo viaggio attraverso gli ultimi due decenni, interpella fortemente l'osservatore con i tre messaggi, appunto quello visivo e quelli verbali, tra loro non immediatamente e non facilmente integrabili. Si tratta di messaggi che hanno in comune la provocazione, del resto già anticipata dalla didascalia generale della rassegna, che è: "La mia misura è l'eccesso...". Il titolo del quadro è ”La fandonia dell'oracolo”. La citazione, tratta da "Tropico del cancro" di Henry Miller, dice: "Io sono un uomo che vorrebbe vivere una vita eroica e rendere più sopportabile il mondo ai suoi occhi". L'immagine propone in primo piano una distesa piatta e desolata, sulla quale campeggia la scultura di un guerriero antico nudo, con elmo, daga e scudo. La distesa è interrotta da grandi voragini a piombo. Al confine estremo, dalla parte più vicina emergono gli scheletri di due grandi alberi, mentre da quella più lontana si staglia lo scheletro un po' più piccolo di un altro albero, con accanto parimenti una scultura di un uomo, che in questo caso sembrerebbe disarmato e senza testa. Oltre il confine di quello che risulta essere una sorta di altopiano, si intravede in basso un'altra landa, a sua volta con una scultura.
Che cosa esprime tutto questo e secondo quale stile o appartenenza di scuola? La risposta non può essere immediata, ed è sufficiente un'occhiata agli altri quadri per rendersi conto della complessità della questione, in quanto agli elementi costanti si aggiungono quelli che di volta in volta appaiono diversi. Il percorso critico, o meglio, l'operazione ermeneutica, può quindi avere un carattere decostruzionistico, nel senso derridiano del riconoscimento delle stratificazioni depositatesi nell'opera in fase di ideazione e di produzione da parte dell'autore. E questo accade non solo a livello di coscienza piena della citazione, dell'allusione agli ascendenti, espresse in funzione finalistica rispetto alla lettura che poi dell'opera verrà effettuata, a chiarire che non si tratta solo di creazione pura, di assoluta intuizione lirica senza legami con una matrice. Il richiamo può agire infatti anche attraverso automatismi che non derivano scientemente dall'Io, ma che l'Io, poiché non appartengono all'area della rimozione, può comunque riconoscere. Che dire, allora, del quadro in oggetto? Certamente si allontana di molto dal naturalismo ingenuo, spontaneo, della pura e semplice rappresentazione della realtà. E' questo, del resto, un atteggiamento in linea con il fatto che, nonostante alcuni tentativi effettuati in questo senso, di restaurazione neoclassica, la pittura contemporanea si tiene ormai, dal tempo della svolta impressionistica della seconda metà dell'Ottocento, che pur essendo figurativa introduceva il soggettivo della percezione visiva, lontana da tale visuale. Allora, si tratta di fare i conti con le avanguardie, da quelle storiche di inizio Novecento fino alle neoavanguardie seguite alla svolta di metà secolo e, secondo la felice espressione di Achille Bonito Oliva, alle "transavanguardie", che segnano la libertà tipicamente postmoderna di prelievo e di contaminazione. In questo modo è possibile essere se stessi, secondo la propria peculiare sensibilità, pur essendo partecipi del proprio tempo e degli stili che lo caratterizzano.
A livello dei messaggi verbali di Valerio de Filippis, l'area di riferimento che balza in primo piano è quella dei movimenti più dinamici, in qualche modo ribelli, "eroici" non tanto in relazione ai conflitti terreni, quanto, in senso tragico, nel rapporto con l'Essere e con la vicenda della vita in se stessa. Si tratta quindi dei movimenti postimpressionistici più filosofici di transizione al Novecento, che portano alla fase precubista di Picasso, poi di quelli sorti in relazione con l'esperienza della Bauhaus di Gropius, in primo luogo l'Espressionismo, infine del Surrealismo. E la frase di Miller è in questo senso molto esplicita. Dal titolo dissacratorio e ribelle del quadro viene sostanzialmente una conferma in tale direzione. In quanto all'immagine, essa si rivela non in contrasto con questa interpretazione. L'atmosfera è quella fredda dell'assenza di movimento, addirittura di vita. L'ambiente è irreale, da incubo. Il surrealismo tragico è direttamente evocato. Mettendo insieme gli elementi verbali e quelli non verbali ne risulta l'annullarsi di ogni possibilità, quindi delle illusioni, e in questo senso va inteso il fallimento dell'oracolo, con la sconfitta dell'eroe.
L'incertezza del domani/The uncertainty of tomorrow (1981) olio su tela/oil on canvas, cm (70 x 50)
"E qui è tutta la finitezza (...),
questo avere la vita momento per momento,
questo averla a goccia a goccia,
non potersi mai sentire compenetrare in essa,
non potersi mai sentire essa."
Giuseppe Capograssi
Il quadro successivo, dal titolo “L'incertezza del domani”, secondo la linea logica individuata di un nichilismo eroico, dove però l'eroe, come nel mito di Sisifo, non è mai domo, verrebbe prima nel tempo. L'ambiente è tetro, minaccioso, con quelle scogliere sul fondo, ma l'acqua è più viva degli elementi del quadro precedente, e soprattutto è viva la donna in primo piano, che si offre al sole anche se pensosa. Qui a togliere le illusioni è la citazione del testo di Capograssi, che dichiara l'impossibilità dell'esistenza di ancorarsi all'orizzonte stabile dell'essere (“E qui è tutta la finitezza (…), questo avere la vita momento per momento, questo averla a goccia a goccia, non potersi mai sentire compenetrare in essa, non potersi mai sentire essa.”) Il riferimento di scuola può essere in questo caso il Simbolismo ambiguo di Khnopff, di Hodler. De Chirico, comunque, preme alla porta.
Interessante è il fatto che la rassegna, dopo l'avvio con le tre opere d'inizio degli anni Ottanta, compie un salto in pratica verso l'attualità dal 1996 in poi, con un quadro solo di transizione, che è “Amore ai margini di un'autostrada”, del 1989, al quale è abbinata la citazione del frammento "Verso di voi, così belle, il mio pensiero non muterà mai", della poetessa dell'antichità greca Saffo, che aveva costituito nell'isola di Lesbo un tiaso poetico ed erotico con una comunità femminile. Si tratta di un quadro che rappresenta un amplesso tra due donne, probabilmente, coricate in un prato sottostante la carreggiata di un'autostrada. La figura che si china sull'altra è certamente femminile, con il seno nudo in evidenza. L'altra, supina ed estatica, con i capelli che si confondono con l'erba, ha gli occhi socchiusi, i lineamenti delicati e le sopracciglia curate.
Amore ai margini di un autostrada/Love on the edge of a freeway (1989)
olio su tela/oil on canvas, cm (70 x 82,5)
"Verso di voi, così belle, il mio pensiero non muterà mai"
Saffo
Sul significato dell'insieme dei messaggi, si può ipotizzare l'acquisito passaggio alla consapevolezza del postmoderno filosofico, con il suo relativismo. Ma tale accenno è carico di solennità e di mistero. Quel "non muterà mai" esprime una volontà irriducibile di assoluto.
Nella serie dei quadri, sono molti quelli che presentano figure esili, evanescenti, dai tratti sfumati, senza fisionomie riconoscibili. Le figure umane, in se stesse e nel loro intrecciarsi, sono inquietanti, così come lo sono la scena e l'atmosfera, i titoli, i testi abbinati. Ma sempre traspare l'ostinata resistenza dell'eroe, se non apertamente dichiarata, manifestata però dalla freddezza dell'analisi, della descrizione del fallimento, che non viene mai accettato e sublimato.
Il quadro “La soglia all'orizzonte obliquo”, del 1998, è abbinato alle parole di Viviani, tratte da "Una comunità degli animi": "Indomabile sguardo che cerca altri mondi in questo. Da sempre ha scambiato la luce per i corpi, ha chiamato sostanza ciò che non si mostrava, ha sconvolto paesaggi, ritorni, incontri: ha bruciato tanta vita fino a spegnersi". Qui siamo al di là delle illusioni, dove appunto l'"orizzonte" diventa "obliquo". L'essere non si è rivelato, nonostante la dedizione e i sacrifici che hanno contrassegnato la sua ricerca. L'immagine del quadro presenta figure umane dai caratteri suddetti, in pose che esprimono disperazione, mentre una appare come sospesa nel vuoto, forse appesa per il collo.
La soglia all'orizzonte obliquo/The threshold to the oblique horizon (1998) olio su legno/oil on wood, cm (80 x 60)
"Indomabile sguardo che cerca
altri mondi in questo. Da sempre
ha scambiato la luce per i corpi,
ha chiamato sostanza ciò che non si mostrava,
ha sconvolto paesaggi, ritorni, incontri:
ha bruciato tanta vita, fino a spegnersi."
Cesare Viviani
Il quadro “Serie dei sette peccati capitali: Ira”, del 1999, presenta un gruppo di uomini nudi, sempre con l'aspetto di larve evanescenti, abbattuti anche se ancor vivi, o in procinto di esserlo, mentre uno solo di loro è ancora eretto a sfidare il destino con lo sguardo volto all'orizzonte, in un ambiente ancora una volta desolato e privo di vita. Il testo abbinato è di Dante: "Mentre noi corravam la morta gora, dinanzi mi si fece un pien di fango". E' tratto da "La divina commedia" e riguarda il girone appunto degli iracondi, con il personaggio di Filippo Argenti che si fa avanti intrecciando con Dante un dialogo sorprendente. "vedi che son un che piango", egli dice, ma Dante non manifesta per lui alcuna comprensione, ammirazione, affetto, come per Francesca, Ulisse, anche avversari politici come Farinata degli Uberti e così via. Anzi, gli esprime tutto il suo disprezzo.
Serie dei sette peccati capitali/Series of seven deadly sins: Ira/Wrath (1999) olio su legno/oil on wood, cm (120 x 60)
Mentre noi corravam la morta gora, dinanzi mi si fece un pien di fango, (...)
Dante Alighieri
Qual è il significato? Sta presumibilmente nella stessa intima contraddizione tra il messaggio iconico, con l'uomo che sfida il destino inesorabile, e quello verbale, che ristabilisce i termini
del confronto impari. Nell'ordine ontologico del destino l'"ybris", la protervia umana nei confronti degli dei soccombe, ma l'animo in qualche modo rimane indomito. L'eroe sarà a sua volta
abbattuto, ma non piegato come gli altri che accanto a lui si muovono carponi. In tutti questi quadri il richiamo alla pittura metafisica di Giorgio De Chirico e al surrealismo di Salvador Dalì
appare evidente. La filosofia che traspare, data dalla consapevolezza del tragico in ultima istanza non risolto, in quanto si istituisce uno sdoppiamento tra l'eroe rappresentato e l'Io narrante
che con esso si identifica, ma che continua comunque la sua ricerca.
Il genio perverso dell'arte
di Francesco Barresi Il corpo è fame, ma la fame è ritmo:
ponete l'accento sull'una,
e avrete il segreto dell'esistenza;
ponete l'accento sull'altro,
e avrete il segreto dell'arte e del sadismo Gino Raya (1)
Valerio de Filippis è un artista poliedrico, da sempre impegnato in un continuum teso alla ricerca di un personalissimo vissuto introspettivo che lo rende definibile come un intellettuale della violenza velata.
La grandezza di de Filippis consiste nella semplicità con cui cerca di dare delle risposte a delle domande grandiose che nessuno gli pone, se non la sua stessa coscienza, quale testimonianza per
comprendere il mondo circostante, l’arte e soprattutto se stesso. Egli ripercorre, trasudandone i connotati tipici, l’epoca della nostra società urbana e della sua gente, nella struttura
psichicamente malata dei suoi torbidi segreti.
Suicide, delight and power (1996) olio su tela/oil on canvas, cm(80 x 60)
Le sue opere testimoniano la modernità iconografia dell’essere, che parte dalla base di una concezione fisiologica dell’ animo umano, dove l’intimo mistero dell’ uomo, per l’artista, è un ulteriore strumento di ricerca sul significato del dramma umano, sia in chiave sociale sia in chiave individuale.
I soggetti di de Filippis, quindi, riproducono metafore di clamorosa attualità, concernenti contesti specifici di committenza che finiscono con l’ interagire ampiamente con la situazione umana spesso angosciante del suo tempo.
Notturno/Nocturne (1997) olio su tela/oil on canvas, cm (70 x 50)
AllucinaNazione/HallucinaNation (1998) olio su legno/oil on wood, cm (60 x 50 )
La trama delle sue tele si mostra non semplicemente bifrons, bensì multifrons, cioè molteplice, sfaccettata, pluralistica, un luogo dello spazio interiore, oltre che fisico, che esercita
nell’osservatore, in una parola, un’attrazione misteriosa e morbosamente intimistica della perversione umana.
Quello che poi colpisce è l’originalità della sua concezione pittorica e del suo stile, tutto reso a rappresentare la realtà agghiacciante e morbosa della vita quotidiana che ci circonda.
Farising d' blue (1982) olio su tela/oil on canvas, cm (45 X 55)
Saltimbanchi/Tumblers (1998) olio e acrilico su legno/oil and acrylic on wood, cm (60 x 45)
Ma le tele di de Filippis non sono mai forti e scioccanti: forte e scioccante è il contenuto che traspare grazie all’estro sottilmente “perverso” dell’ artista, che riesce ad infondere anche nel comune osservatore una serena ma morbosa curiosità del cruento.
L’osservatore attento sa cogliere sempre quella sottile linea di morbosità che delimita il limite tra l’osceno, crudo e sgraziato e la perversione, raffinata e pungente, attraverso cui l’artista riesce ad imprimere, con vivida e traslucida malizia, l’incanto della cruda ma al tempo stesso docile essenza della torbida carnalità.
I don't remember (1982) olio su tela, cm (60 x 50)
La sua arte è quindi un chiaro invito rivolto a ciascuno di noi a diventare terapeuta di se stesso, perché ciascuno di noi possa interagire con le proprie ossessioni e pulsioni, attraverso un approccio strutturale atto a cogliere i principi del funzionamento perverso dell’animo umano che spesso penetra i misteri dell’inconscio, valicandoli.
Il catalogo cerca di cogliere i suggerimenti che emergono dalle tele di Valerio de Filippis per meglio interpretare i suoi lavori, che hanno dato forse una svolta fortemente rivoluzionaria al panorama dell’ arte contemporanea italiana.
No self control (1984) olio su tela/oil on canvas, cm (50 x 70)
Le tele raccolte in questa mostra offrono un’avvincente occasione di lettura della nostra società, tale da poter interessare il pubblico più diverso. Difatti, nonostante l’avvertibile impegno tecnico mostrato dal pittore e la tensione personale più intimistica tesa a sostenerlo, queste tele hanno il pregio di trattare con accuratezza specialistica le tematiche della morbosità che un’invidiabile lucidità pittorica e una non meno rimarchevole chiarezza raffigurativa rendono del tutto accessibili anche a coloro che si avvicinano per la prima volta alle sofisticate problematiche trattate.
BMW New Jersey (1985) smalto oleosintetico e olio su tela/
oleosynthetic enamel and oil on canvas, cm (55,6 x 65,5)
Nei quadri di de Filippis aleggia inesorabile un senso di morte: in essi è quasi tangibile un senso di macabra visione degli elementi urbani, dove spesso la fragilità della carne è contrapposta alla durezza dell’ acciaio. E’ il caso di Bimba nei pressi di una periferia (1982), dove in una landa desertica, dietro il cui orizzonte si intravede la sagoma di una metropoli, accanto a carcasse di automobili la sensualità in fieri di una ragazzina è storpiata solo dalle sue lacrime di emoglobina, mentre dietro le sue spalle Bimba nei pressi di una periferia/Child near a suburb (1982)
la caricatura di un moncone di tronco olio su tela/oil on canvas, cm (80 x 50)
umano, forse dilaniato e squarciato dopo
un terribile scontro, sembra implorare
aiuto, rantolando e strisciando nella sua
stessa pozza di sangue.
Un feticismo dell’amputazione potrebbe caratterizzare il soggetto dell’ artista, così come è rimarchevole il riferimento alla statuofilia (2) nella tela Vita al limitare di un cimitero d’auto (1983), nella quale due manichini, forse capitati casualmente l’uno sull’altro, sembrano amoreggiare tra le lamiere di un’auto in un tripudio di organica plasticità, quella stessa organica plasticità di cui sembrano pervase tutte le opere dell’ autore, specie quelle del secondo prolifico periodo.
Vita al limitare di un cimitero d'auto/Life on the edge of a car graveyard (1983)
olio su tela/oil on canvas, cm (60 x 50)
Plasticità delle forme che è così evidente ne The straight’s nursery (1995). Qui è rappresentato “l’altro da noi”, l’alter ego, quello che osa solo nel più intimo dell’oscurità del privato. E’ in scena la doppia vita della farsa, quella che Goffmann chiamava rispettabile “facciata”, che si mostra solo sul palcoscenico della vita e che si contrappone alla sostanza del nostro essere che è visibile solo nella “ribalta” dell’oscurità della nostra casa, lontano dagli sguardi indiscreti della società (3). Un uomo, un grigio impiegato presumibilmente espunto dalla quotidianità dell’ovvio e del suo stesso rigore, fa rientro nel buio del suo appartamento, dove sembra ritrovare
La cameretta dei giochi del conformista/The straight nursery (1995) la sua oscena, vera, sola comunità di riferimento,
olio su tela/oil on canvas, cm (60 x 45) in cui nude donne legate e sottomesse danzano in un'orgia del bondage (4) solo apparentemente mimata, ma dalla quale traspare tutto il mondo
malato e perverso della sadica sessualità del
protagonista.
Anche ne I relitti dell’illusione (1997) e nei tre successivi Allucinazione 25, La soglia all’orizzonte obliquo e Intruder, tutti del 1998, sono rappresentate danze orgiastiche tra indefinibili figure plastilinee impegnate ancora in giochi di bondage (specie nel primo) o drammaticamente evocative di drammi irrisolvibili scaturenti in atti di violenza autodiretta (La soglia all’orizzonte obliquo, 1998) o ancora triolistici cunnilingus più o meno consenzienti perpetrati tra fiamme infernali (Intruder, 1998).
da sinistra/from the left:
I relitti dell’illusione/The wrecks of illusion (1997) olio su tela/oil on canvas, cm (100 x 70)
Allucinazione 25/Hallucination 25 (1998) olio su legno/oil on wood, cm (120 x 60)
La soglia all’orizzonte obliquo/The threshold to the oblique horizon (1998) olio su legno/oil on wood, cm (80 x 60)
Intruder (1998) olio su legno/oil on wood, cm (80 x 60)
E proprio l’Inferno e le sue pene, in alcune opere, sembra che de Filippis voglia rappresentare (e sembra farlo con spontanea facilità), come vedremo in epoca più recente.
Ma è solo con La bestia (1999) che vengono a connotarsi maggiormente le matrici parafiliche (5) dei futuri soggetti defilippiani. In quest’opera, basata tutta su un’immota attesa di eventi morbosamente cruenti, è lapalissiana l’ispirazione fetish (6) dell’artista. Un uomo nudo, col volto travisato da una mascherina arancione, è immobile con delle catene in mano, contemplando ed assaporando il piacere che gli deriverà dall’utilizzarle sulla donna, presumibilmente consenziente, già incatenata che gli si pone innanzi vestita solo con un completo leather, guanti, minigonna e stivali neri.
La bestia/Bete noire (1999) olio su legno/oil on wood, cm (90 x 80)
Qui il sottile dualismo che lega il rapporto master-slave (7) è rappresentato dalla stessa catena, che unisce, ineluttabilmente, vittima e carnefice, in un gioco alla violenza ricercata e agognata da entrambi gli attori, tutti volti ad un’insana ricerca del piacere nel dolore. Il crimine qui non c’è: vive solo il reciproco intendimento della costrizione auto-etero diretta, attraverso la quale i protagonisti esperimentano forti sensazioni psicofisiche, sprigionando fenomeni di vera e propria estasi organica.
Scomposizione (2000) continua la tematica dell’ s/m (8) inaugurata da La bestia. In essa è rappresentata l’ambivalenza dell’animo umano e del suo doppio, raffigurata nel dettaglio delle mani appoggiate sui fianchi di una personalità sadomasochista: quella di sinistra, brandente una piccola frusta, quella di destra imprigionata invece da un bracciale di una catena, entrambe, anche qui, in una statica attesa che prelude a momenti di cruento piacere estremo. E’ espressa, attraverso il linguaggio simbolico dell’arte, la metafora del dualismo introspettivo della diade sessuale riscontrabile nelle sessuopatie più importanti, tutte basate sull’ eterno binomio Scomposizione/Dissolution (2000) olio su legno/oil on wood, cm (90 x 60) dolore/piacere.
E dolore e piaceri ormai perduti sono emozioni che traspaiono dall’opera Serie dei sette peccati capitali: Lussuria (2000).
Qui l’ispirazione iconografica è di chiaro stampo cinematografico: il riferimento abbastanza esplicito all’attività omicidiaria del serial killer protagonista di Seven (9) serve da contro altare all’artista per rappresentare il suo personalissimo concetto autobiografico di punizione. Come John Doe, il killer sociopatico protagonista della pellicola, compie omicidi moralistici perpetrati ai danni di vittime che si sono macchiate in vita di uno dei sette peccati capitali (gola, avarizia, accidia, superbia, lussuria, invidia, ira) così anche il nostro artista punisce una donna dedita ai piaceri della propria sessualità, “attraverso un delitto concettuale” (10).
Serie dei sette peccati capitali: Lussuria/Series of seven deadly sins: Lust (1999)
olio su legno/oil on wood,cm (100 x 70)
Il soggetto è rappresentato in tutto il suo cruento e macabro realismo dall’artista che, in un “esplicito rituale allucinatorio” (11) e in un delirio catartico, scarnifica l’essenza stessa della rappresentazione della morte, ostentandola.
La donna giace su un prato verde, con i segni di una violenza carnale subita e svelata solo dalle vesti strappate, incaprettata mani e piedi dietro le terga accanto a cadaveri di cigni bianchi, in un grottesco bondage di commistione necrozoofilica. Se nella pellicola cinematografica il serial killer per i suoi omicidi si ispirava a Dante, Shakespeare e Chaucer, nella tela il de Filippis sembra ispirarsi ai canti di virgiliana memoria: il paesaggio bucolico, il verde, l’acqua del lago e il sole che albeggia rappresentano tutti la vita, che si contrappone con modalità inesorabilmente cruente alla morte della donna, dei valori, della bellezza, della natura data dai cigni, dei piaceri della sensualità e della carnalità. Una tela forte nel significato, che impatta l’osservatore, mai grandguignolesca ma dotata di un certo fascino perverso che intriga e colpisce a riflettere l’osservatore, catturato dall’immota rappresentazione della naturalità della morte e della fine “della peccatrice messa alla stregua di animale, predata” (12) da uno sconosciuto ma reale cacciatore seriale. E la realtà finisce per confondersi con l’arte: molti assassini seriali, molti “predatori”, sono difatti attratti dalla pittura, che diviene una delle modalità surrogate preferite per esprimere la loro interiorità malata e tormentata (13). L’arte e l’omicidio seriale sono quindi sempre finiti col confluire: spesso, il fascino perverso e disturbante dell’omicidio sessuale ha finito con l’influenzare le avanguardie pittoriche di vari periodi. Esponenti artistici del calibro di Otto Dix, George Grosz, Alfred Dòblin (14) e Francis Bacon anch’essi, come de Filippis, nelle loro opere raffigurano i fantasmi della loro ossessione: il sesso, la morte, la violenza, la fine, il Male.
Sono archetipi del Bene e del Male, quelli rappresentati da due identiche figure unicorni d’argilla antropomorfa, che si fronteggiano carponi nel mezzo di un’arida radura, in Lotta interiore (2001), il cui titolo esplicitamente autobiografico sottende l’eterna lotta belluina degli opposti, del bianco e del nero, del femmineo e del mascolino.
Lotta interiore/ Inner struggle (2001) olio su legno/oil on wood, cm (110 x 90)
La figura antropomorfa del Bene, riconoscibile forse per l’unicorno bianco, simbolo della potenza della Bontà, e quella del male, riconoscibile dal rosso alito di fuoco, sono le facce della stessa medaglia uomo: esse sono, unite simbioticamente, il principio del Baphometto satanista, vero simbolo magico del tutto e del contrario del tutto, disegnato dal grande occultista Eliphas Levi (15), rappresentante l’eterno ambiguo dualismo dell’ umanità, essenza stessa sia del Male assoluto che del Bene relativo.
I canoni del Bene e del Male si ritrovano in Una Venere occidentale (2001). Qui si possono riscontrare spunti di letteratura dell’orrore: su una metropoli ultramoderna, immersa nel buio della notte e solcata da alti tralicci sanguinolenti, veleggia la sagoma di una donna dorata, nuda sino al ventre, che sfuma nella doratura di un’enorme macchia rossa nell’ oblio dell’oscurità, mentre al cui fianco una mano sporca di sangue, che fuoriesce dalle maniche di una giacca, brandisce un fallico stiletto appuntito che lambisce le sue nude gambe.
Una Venere occidentale/ Western Venus (2001) olio e acrilico su legno/ oil and acrylic on wood, cm (90 x 70)
L’orrore dell’uccisione qui è solamente suggerito dall’osservatore smaliziato, che riesce comunque ad intravedere le gesta di un attualissimo Jack lo squartatore. Difatti, se in primo piano è evidenziata una moderna megalopoli, ad essa si contrappunta una pièce che ricorda la violenza dell’antieroe dell’epoca vittoriana, riesumato qui dall’artista per ricordare che la dissolutezza può essere sempre punita, in qualsiasi epoca. La denuncia alla dissoluta e libertina società odierna, rappresentata dalla donna “dorata”, e di cui l’artista stesso fa parte, e oltremodo manifesta, così come il chiaro intento di “dissacrare la bellezza delle sue figure femminili (…) attraverso un atto di violenza subliminale” (16).
Sposi (2001) rappresenta invece un sarcastico e cinico tentativo da parte dell’artista di ricreare e riproporre quegli antichi valori sociali ormai perduti e “ritrovati” nella moderna famiglia alle soglie del terzo millennio. Ma, in realtà, quei valori enucleati dal de Filippis non sono altro che la grottesca caricatura, rappresentata dall’ennesima parafilica rappresentazione del legame basato sulla pratica sessuale del privato (17).
Il “marito”- carnefice, in primo piano, è difatti travisato da una tunica con cappuccio nero e stringe tra le mani una verga, mentre alle sue spalle si intravede la sagoma scheletrica e mummificata della vittima-compagna, intenta a mordicchiarsi il labbro, unica parte organica ancora rigonfia di sensuale vitalità, nell’attesa di assaporare le sensazioni di piacere che la violenza del partner le procurerà. E’ la rappresentazione dei nuovi valori della famiglia odierna, è la raffigurazione della sofferenza del piacere, è la dimostrazione del legame basato sulla perversione della sessualità.
Sposi/ Just married (2001) olio e acrilico su legno/oil and acrylic on wood, cm (90 x 125)
Un tributo di chiara ispirazione necrofilica è la sessualità che viene raffigurata dall’artista in L’incidente (2001). Se di fatti l’opera del 1983 aveva per protagoniste due figure inanimate, qui le figure antropomorfe esprimono tutta la loro vitale e pulsante deviazione, basata sul feticismo di un’organicità malata e ferita. In una automobile incidentata, un uomo si avvinghia sessualmente su un corpo femminile, il cui capo riverso in modo così forzatamente innaturale non può che connotarlo ormai come deceduto. Come il contorto e malsano percorso condotto da Ballard nel suo romanzo (18), così Valerio de Filippis, nella durezza della rappresentazione di un atto necrofilico, esplora le perversioni umane spinte alle loro estreme propaggini in un torbido percorso alla ricerca del pericolo e del piacere estremo, teso tutto alla ricerca di un feticismo dell’organicità malata, ferita ed umiliata. Ma attraverso lo sguardo di de Filippis, i corpi, che siano di plastica o di carne, diventano un’introspettiva sinfonia visiva basata su un’armonia organica.
L’annientamento della donna è ostentato in Le armi reciproche (2001), dove tre donne nude di spalle scorrono come sagome di un bersaglio lungo l’ipotetico poligono della vita, mescolandosi ai flutti impetuosi dei loro stessi capelli, inquadrati dal mirino minaccioso di un killer prossimo all’ azione omicidiaria. Anche qui è punita la sessualità della donna, utilizzata sovente come arma di seduzione per conseguire meri fini materialistici, e nulla può l’uomo, assassino del suo stesso piacere, se non ribellarsi a tanto oblio della carnalità con l’unica arma a sua disposizione, una fallica carabina.
L’inferno artistico e visionario defilippiano trova l’apoteosi ne I ciechi o La beatitudine dannata (2001), la cui dinamicità drammaticamente rappresentativa dell’insieme è lacerante. Qui il Pandemonium è raffigurato nelle figure plastilinee che sembrano sorgere da un plasma magmatico dell’oblio infernale: sulla sinistra una folla di anime dannate si dispera sulle apparentemente solide e sicure rive da cui però si innalzano minacciose lingue di fuoco fluorescente, dalle cui spire sembra librarsi un’anima verso il cielo limpido del Paradiso Perduto (19). In primo piano, un’altra, quasi sfinita, appoggiata su una specie di roccia innalza una candela, forse unica fonte di luce e di calore per individuare l’anelata via della vera salvezza rappresentata da una stella a sei punte, che altri è se non l’apportatore di Luce, Lucifero il Principe degli Inferi, alla cui base sovrintende una sinistra figura demoniaca che, immobile, assiste indifferente e compiaciuta all’oscena e tragica danza dei dannati ciechi.
Spietata e drammaticamente cinica la conclusione nelle parole dello stesso artista, che non lascia spazio a soluzioni di continuità: “…in ogni caso la direzione per la beatitudine è dannata”, cioè, a suo dire, è effimera ed illusoria, perché non lascia alcuna speranza all’umanità, afflitta nell’intimità del proprio essere da un’ineluttabile ed insanabile cecità spirituale.
NOTE
1) Gino Raya, L’ arte di uccidere, Ciranna 1970, Roma.
2) Ossessione sessuale per statue, oggetti e rappresentazioni antropomorfe.
3) Erving Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino 1969, Bologna.
4) Pratica sessuale di costrizione mediante l’ utilizzo di corde, lacci, catene, bende, ecc.
5) Sinonimo di perversione. Assume valenza patologica se essa viene a sostituire completamente il normale atto sessuale.
6) Passione per materiali, abbigliamento (pelle, cuoio, PVC, tacchi alti, stivali, lingerie) od oggetti che trasmettono forti sensazioni e simbologie sessuali.
7) Nel lessico del sadomasochismo, indica il rapporto dominio – sottomissione tra il Padrone (il Master) e la schiava (la Slaver).
8) Acronimo di sadomasochismo.
9) Seven, di David Fincher, 1995, USA .
10) Hary Kelvin in Sperimentali ritrovi, di Fortunato Bruno, Associazione Culturale AllucinaNazione.
11) Hary Kelvin, Quando la paura diventa logo, Associazione Culturale AllucinaNazione.
12) Hary Kelvin, Aberrazioni contemporanee, Cronache del duemila, 26 / 7 / 2001.
13) Ruben De Luca, Anatomia del serial killer, Giuffrè 2001, Milano.
14) Ruben De Luca, op. cit.
15) Eliphas Levi, Il rituale dell’ alta magia, Brancato 1996, Catania.
16) Hary Kelvin, Sperimentali ritrovi, op. cit.
17) Varianti del fetish con l’ aggiunta del travisamento del volto mediante cappucci o maschere.
18) J. G:Ballard, Crash, Bompiani 1973, Milano.
19) John Milton, Paradiso Perduto, Mondadori 1984, Milano.
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Dal dolore all'azzurro
Il percorso di Boudelaire e de Filippis
di Giovanni Dotoli
Tu conosci, lettore, questo mostro delicato,
Ipocrita lettore, - mio simile, - mio fratello!
Charles Baudelaire
Scelta felice quella di Valerio de Filippis con il grande poeta francese Charles Baudelaire, colui che è unanimemente riconosciuto come l’artista che dà origine a alla modernità poetica. De Filippis interpreta quattro testi, tre tratti dai Fiori del male, vale a dire La destruction, Les aveugles e Au lecteur (rispettivamente La distruzione, I ciechi e Al lettore) ed uno tratto da Le spleen de Paris. Petits poèmes en prose (Tedio di Parigi. Piccoli poemi in prosa): Le crépuscule du soir, Il crepuscolo della sera.
Sono dei testi capitali nell’immaginario e nello sviluppo della poetica baudelairiana, che perfettamente si organano con l’arte di de Filippis, con le sue tematiche, con il suo rapporto doloroso con questo nostro mondo. La distruzione pone al centro del testo il senso del delirio, di persecuzione e di degradazione che prende l’essere umano nei suoi rapporti con gli altri, come osserva lo psichiatra svizzero Ludwig Binswanger. I ciechi mettono sullo stesso piano il poeta che cerca eternamente la luce e esseri umani che vagano nel silenzio oscuro del mondo. Al lettore costituisce il grande poema liminare dei Fiori del male, in cui Baudelaire già fissa l’itinerario terribile della sua poesia, il suo “cammino fangoso”, accanto al Diavolo, nella noia assoluta, in cui insieme vivono, lettore e poeta: “Tu conosci, lettore, questo mostro delicato, / Ipocrita lettore, mio simile, mio fratello!”, grida disperatamente Baudelaire. Il crepuscolo della sera ci segnala il rapporto di creatività tra notte e poesia, oscurità e follia: il poeta crea nel silenzio oscuro dell’universo. E Valerio de Filippis si cala perfettamente nell’atmosfera di questi quattro testi. Acque torbide ammantano l’uomo, che tenta disperatamente di non annegare. Esseri scheletrici vanno per il mondo alla ricerca di una strada, di un punto di riferimento, piegati dal peso del cielo. Tutto sembra finito, distrutto dallo stesso essere umano. E il pittore come il poeta, fa appello al cuore dell’uomo, per trovare una via, per andare avanti nelle e sulle macerie della vita.
Baudelaire scrive di voler produrre “un libro atroce”; de Filippis ci dona la visione di una terra atroce, tra odio e disprezzo, bellezza sinistra e fredda, morte e desolazione. Il loro uomo, cioè noi, vive in isolamento, nell’immensa memoria perduta, come un faro della coscienza moderna.
Eccolo questo essere che ha il gusto del “malheur”, questo essere che vive perennemente a contatto con Satana, che cerca un punto di luce nel delirio dello scorrere dei giorni.
La vita appare un carcere, un tempo di agonia, dopo il quale forse verrà ancora un altro tempo di agonia.
E Baudelaire e de Filippis guardano il Cielo, si chiedono cosa cerchino i Ciechi nell’immensità della volta celeste, sperduti, con un filo di speranza, che è il filo dell’arte.
E’ il vuoto del peccato originale e dei peccati di ogni giorno. Idee, sogni e nevrosi vanno sempre insieme. Un’atroce vendetta governa le cose umane. Il poeta e il pittore mettono a nudo il proprio cuore, per darci il grande libro della natura, stanchi di esistere, ma certi di fare opera di convincimento, di ammonimento, per noi del terzo millennio e per ogni uomo, di ieri, di oggi e di domani, nello spazio della modernità e della post-modernità.
Solitudine dell’ uomo, solitudine del mondo. E’ come se essi non si incontrassero mai. Sulla terra, l’essere umano vive sempre ai confini dell’allucinazione. Nella notte, dopo il crepuscolo della sera cerca l’altro, nello spazio infinito che si dilata fino a perderlo. Infinito e morte viaggiano insieme. E’ una vera e propria “poetica della malinconia”, come la definisce il grande critico pugliese Giovanni Macchia in un famoso libro su Baudelaire (Baudelaire e la poetica della malinconia, Rizzoli 1975, Milano).
Tristezza, inappagamento, sofferenza uccidono l’uomo. Ma il pittore e il poeta vanno, raminghi per il mondo, a captare immagini, corrispondenze, speranze estreme. Satana accompagna la loro sete di arte, di capire dove andiamo, di fermare il nostro viaggio prima che sia troppo tardi, prima di inabissarci per sempre. Alchimie de la douleur, ‘alchimia del dolore’, dice Baudelaire. Vale anche per de Filippis. La sua pittura marcia verso l’alchimia del dolore. Io parlerei di autobiografia o di biografia del dolore, di descrizione della vita dei dannati. E’ un realismo che ci fa vedere la carne malata, l’inferno della realtà e del sogno. Realtà e sogno, illuminazione e sangue. La vita intorno a noi si carica di simboli, di pericoli, di mostri. Tutto è mostro, tutto è paura. La sottile musica che sentiamo nell’ascoltare le viscere della terra e del corpo non ci appaga, ma ci dice di continuare, di voyager, di scoprire. La lezione dei pessimisti è più sincera e più produttiva di quella degli ottimisti. Dopo il viaggio, anche di quello della morte, l’orizzonte forse sarà meno nebuloso.
Sulla decadenza delle cose regna una malinconia atroce, una cappa di piombo. Ci sentiamo incatenati e vogliamo volare. Ma dove volare? Dove poter volare? Le ombre sollecitano il poeta e il pittore, li attirano irresistibilmente verso l’esperienza dell’abisso, il gouffre, luogo di fascino della distruzione.
L’unità lirica e pittorica è in questa desolata terra di nessuno, dove vaghiamo senza linee di fuga, senza punti di riferimento, alla ricerca di uno spicchio di azzurro. Siamo, dice Baudelaire, come dei Prometei incatenati male. Nell’esistenza perennemente irrisolta, andiamo nel dolore e per dolore. Rimorso? Fuga? Abbandono? L’uomo è semplicemente se stesso. Dov’è la salvezza? In quali terre? Dopo quali orizzonti? Baudelaire e de Filippis non si stancano di cercarla; poeta e pittore sono costantemente in esilio. Su questa terra sono, e siamo, in esilio. Ma dov’è allora il nostro spazio? Come ciechi, come poeti, come marinai, come i folli, come lettori, come gli spettatori di un quadro, vaghiamo senza meta, e poi crolliamo sotto il macigno dell’ azzurro.
Gli esseri di Baudelaire e de Filippis sono di carne macilenta. Anche quando sono in carne, vedono l’al di là, il dopo, il disastro, la distruzione, il crepuscolo. E l’artista fa appello al lettore, di parole e di pittura, che conosce la via della rovina, che sa delle paure e delle speranze, che sperimenta ogni giorno la via del dolore.
De Filippis si avventura ai confini della vertigine, dove la noia tutto prende e addenta. Come è moderno Baudelaire, moderno è de Filippis, nel senso di una percezione continua dell’imminenza del nulla, della morte, dell’orrore. Il male di vivere è il tema che accomuna questi due artisti. Una sorta di analogia universale regna tra ogni filo del reale. Per secoli, il pittore ha mostrato quasi solo paesaggi e visi giocosi. La morte era solo quella di Cristo, in crocifissioni e vite di santi. In Baudelaire e de Filippis , la morte siamo noi.
Un’architettura segreta governa le cose. Sta nell’artista scoprirla, rincorrerla, mostrarla. E l’architettura di de Filippis e Baudelaire è quella del dolore, tra nostalgia, tedio e dannazione.
Siamo circondati da carnefici e siamo noi stessi carnefici della nostra esistenza. C’è un surrealismo della verità, nella pazzia del nostro andare. E poeta e pittore sono obbligati a mostrare ogni momento allegorie notturne di demoni e tentazioni. Non c’è ribellione che tenga. La catastrofe è davanti a noi. La morte ci aspetta: è la lezione umile e forte di questi due artisti, accomunati dalla stessa dolente passione, dalla stessa poetica del nulla.
Ma è solo tedio? E’ solo morte? E’ solo dolore?
Credo di no. Non c’è forse una fecondità della malinconia e del dolore? Il dolore non è forse uno dei grandi temi della ricerca dell’uomo? Dietro la noia c’è la speranza. E forse anche la libertà. La questione centrale è quella del rapporto con l’altro. Ed altro è anche Dio, e anche il mondo, e anche il cielo. C’è una mistica della noia. Baudelaire e de Filippis la conoscono perfettamente. Sanno che per cercare occorre conoscere, che per andare verso l’azzurro occorre partire dal cimitero di questo mondo. Così dietro la tabula rasa del mondo che ci circonda e che popola i nostri sogni c’è un barlume di speranza. Viviamo ancora le conseguenze del peccato originale (per quanto tempo ancora?, sembrano dire i nostri due artisti), e crudelmente ne prendiamo atto, vivendo costantemente ai confini dell’allucinazione. Cercatori di infinito, ci abbandoniamo alla malattia, al vizio, all’impotenza,
all’ abisso.
Dov’è l’altro? E poi l’altro sarà veramente la nostra salvezza? Baudelaire e de Filippis sembrano dire di no. Eppure cercano, indagano, fotografano, in una sorta di gioia del ‘lavoro’, esperienza metafisica della via dell’arte, fra tortura e rimorso.
Ossessione di vivere, ossessione di azzurro. Baudelaire e de Filippis tentano di evadere, di andare per illusioni, accanto a coloro “che non hanno mai conosciuto la dolcezza di un focolare”. L’“apparato della distruzione”, sanguinoso e seducente, attira, prende, in una “voluttà” tenebrosa. Eppure l’artista va e continuerà ad andare. Anche se “la morte nei nostri polmoni discende quale fiume invisibile dai cupi lamenti”, egli ha “un’anima sufficientemente ardita”. I “nostri miseri destini” non ci fermeranno e non fermeranno mai l’artista.
Come ogni grande artista, il pittore e il poeta bruciano tutto. Essi cercano dietro le ceneri del mondo, dopo l’incendio, dopo la distruzione. Solo dalle ceneri, dal piccolo punto di luce del fuoco che resta, potremo risorgere. Dal male nascono i fiori. Dalla constatazione dei dolori del mondo verrà la luce.
E’ la grande lezione di Charles Baudelaire, e di Valerio de Filippis. Anche se ogni giorno andiamo verso l’Inferno, nel piccolo spazio tra due camini, nell’azzurro stellato, sempre brillerà il fascino del crepuscolo della sera, zona lirica del poeta e del pittore. Guardiamola costantemente, quella zona. Forse faremo in tempo a salvarci.
da sinistra:
La distruzione (1992) china su cartoncino, cm (50 x 35)
I ciechi "
Al lettore "
Il crepuscolo della sera "
Progetto per un feto bionico transumano deforme (2022)
tecnica mista su legno, strutture elettroniche, led. cm (54 x 84)
Il titolo è molto forte. Come nasce?
Il quadro che dà il titolo alla mostra è nato da una gettata di colore liquido su di una tavola posta in piano. La forma che si delineò sembrava un feto. E così lo trasformai in un esserino al cui interno, tramite apposite piccole finestre, si notano delle strutture elettroniche illuminate da led. Questo feto sono sempre io in un autoritratto immaginario. La parola “deforme” allude ad una deformità morale. Perché, alla fine dei conti, se da una parte assistiamo al superamento dei limiti psicofisici, dall’altra vi è inevitabilmente una perdita. La perdita della fragilità e della consapevolezza della finitezza umana, attraverso, non dimentichiamolo, l’aspetto del prolungamento della longevità. In altre parole, quello che si otterrebbe, secondo il mio sentire prettamente emozionale e intuitivo, dovrebbe consistere nello smarrimento, fino alla privazione, di quella tensione spirituale della quale la creatività non può fare a meno, che deriva proprio dal sentimento della finitezza, dal rapporto con lo spazio e il tempo. L’abbandono del corpo biologico, privato della sua corruttibilità, porterebbe ad un rapporto malsano e morboso con il tempo della vita, alla quale secondo me, ognuno è chiamato per scriverne e lasciarne un senso.
Figura Zero (2005)
tecnica mista su legno, cm (110 x 80)
È successo che durante la creazione, un’opera ha preso una piega diversa rispetto alle intenzioni iniziali?
Sì, qualche volta mi è capitato di mentire a me stesso senza accorgermene. Dunque, un soggetto che pareva essere al centro del mio interesse in quel dato momento naufragava nel colore, per poi riaffiorare con ciò che veramente volevo esprimere. Essendo un essere cibernetico e transumano esclusivamente negli autoritratti, sono soggetto all’errore e lo dico in tutti i sensi.
Giovanni Zambito.
Malfunction (2023)
tecnica mista su legno, circuiti elettronici, led. cm (88,5 x 49)
PROGETTO PER UN FETO BIONICO TRANSUMANO DEFORME
di Francesca Perti
“Valerio De Filippis, con Progetto per un feto bionico transumano deforme, porta al punto più alto la sua riflessione sull'essere: la paura di essere e quella del divenire altro. Lo fa attraverso una serie di autoritratti che diventano il suo amuleto esorcistico personale. L’autoritratto, nel corso del tempo, ha dimostrato di essere molto di più di una semplice rappresentazione fisica dell'artista, è soprattutto un mezzo per esplorare le proprie contraddizioni interiori, un viaggio verso l'autoconoscenza personale e politico.
Per De Filippis, ricercatore dello spirito, uomo di idee al pari di ogni filosofo, l'autoritratto è un modo per indagare, non solo quello che di sé non conosce, ma anche quello che si vorrebbe essere e la paura di diventarlo. [...] Progetto per un feto bionico transumano deforme è un’autobiografia onnivora e selvaggia, un’autobiografia virulenta dove l'ottica dello spettatore viene continuamente catapultata entro lenti deformanti.
De Filippis è nudo, ci offre le sue diverse facce e le sue innumerevoli forme, venendo così risucchiati dalla sua chimica nervosa. Opere come Flames/ Darkness, Ibiscus o gli Androidi, caratterizzate da un segno solido come il cemento, rappresentano non solo la rivelazione, la presa di coscienza e l'apertura al futuro, ma anche l'interesse dell'artista per il transumanesimo o post umano, la curiosità di esplorare le possibilità immaginative create dalla nuova tecnologia. L'Androide è una proiezione di quello che De Filippis potrebbe diventare ed è un divenire che incuriosisce emoziona e intimorisce.
Tutte le opere di De Filippis recano in sé un germe di autodistruzione, proprio per la continua tensione a sperimentare; sono trame elettriche di energia pittorico - corporale: è un
Dorian Gray che fagocita il suo mostro, caricandolo di movimento ed energia.”
(dal testo critico di Francesca Perti)
Valerio De Filppis (Pozzuoli (NA), 5 marzo 1960) inizia la sua ricerca artistica nel campo della pittura nel 1980 a Bari, poco prima prima del conseguimento della maturità scientifica (1982). Compie numerosi viaggi all'estero stabilendosi nel 1992 per due anni a Bruxelles. Dal 1994 vive e lavora a Roma dove nel 2003 fonda lo Studio E.M.P. (Experimental Meeting Point) studio d'arte, luogo di interscambio espositivo e confronto culturale e tecnico tra artisti di qualsiasi linguaggio. Vincitore di numerosi premi, è stato invitato a diverse rassegne, anche internazionali. Del suo lavoro si sono interessati in più occasioni la stampa e la radiotelevisione italiana. Le sue opere fanno parte di collezioni pubbliche e private. Attivo dal 1980 nel campo dell'iperrealismo, negli anni Novanta vive la prima fase di distacco dal realismo figurativo verso esperienze tendenti all'astrattismo. Dal 2003 conduce una ricerca pittorica sperimentale attraverso l'uso di colori e materiali non tradizionali. Soggetto delle sue opere è il corpo umano, prevalentemente maschile, ad eccezione del ciclo sulla mitologia delle Sirene. Nel 2001-02 si è avvicinato alla pittura neoespressionista conducendo una ricerca su tematiche legate ai comportamenti umani aberranti, generando, in occasione di una mostra ad Orvieto, controversie che sconfinavano in un'interrogazione parlamentare. Negli anni 2004-'06 ha lavorato ad opere a tecnica mista tra pittura e computer art, con il ciclo denominato "Frammenti". Nel 2007 realizza la sua prima installazione, un video e alcune opere concettuali. Nel 2010 è autore di alcune performance, due delle quali estreme. Dal 2013 comincia a sperimentare la videoart, il montaggio video e la composizione musicale, quest'ultima avvalendosi sia di software per elaborazione di Musica Concreta, sia studiando pianoforte e chitarra. Nel 2015, dopo aver musicato con voce alcune liriche di William Blake, realizza "Musica per Riccardo III", con testi originali di William Shakespeare. Nell’aprile 2017 termina il film “The Mirror and the Rascal”, con testo originale del Riccardo III di W. Shakespeare, che si caratterizza per talune trovate surreali e sperimentali, e per la contaminazione fra teatro, cinema e videoart. La prima del film viene proiettata a Roma il 12 giugno 2019 al cinema Azzurro Scipioni. Dal 2018 studia pianoforte classico e teoria musicale, proseguendo comunque l’attività pittorica.
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